Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
La cultura, probabilmente
La metropoli dove i destini si incrociano
e il disagio del melting pot statunitense:
a Los Angeles non è più tempo di sogni
Nel film Crash. Contatto fisico di Paul Haggis, l’incontro-scontro
nelle vicende di alcuni personaggi in un clima post 11 settembre
di Claudia Mancuso
Gli Stati Uniti d'America – si sa – sono da sempre un crocevia di razze, culture, religioni. Ma, al di là dei processi di naturalizzazione ai quali ogni immigrato deve sottoporsi prima di potersi dire cittadino statunitense, si può pensare seriamente ad una pacifica coesistenza tra le varie etnie che compongono “la più grande democrazia del mondo”? La risposta di Paul Haggis – già candidato all’Oscar come sceneggiatore del pluripremiato Million dollar baby – non lascia ben sperare. La Los Angeles descritta nel suo Crash. Contatto fisico (coproduzione Germania-Usa) non è certo un esempio di melting pot, ma piuttosto un crogiolo di razze in eterno conflitto tra loro, dove le differenze si inaspriscono e le minoranze si individualizzano.
Il film vuole essere, per tutta la sua durata, la risposta a chi si chiede quale forma di contatto fisico possa esserci tra gli abitanti di una società che, sebbene multiculturale, non si dimostra ancora pronta alla convivenza.
Ben lo dimostrano le storie di personaggi che, nell’arco di poco più di ventiquattro ore, si scontrano l’uno contro l’altro, dando vita a situazioni sempre nuove, sempre più estreme.

Personaggi che si incontrano e si scontrano
L’espediente narrativo delle esistenze parallele che, improvvisamente, e spesso in modo inaspettato e drammatico, vengono a incrociarsi è stato, ultimamente, spesso utilizzato a Hollywood.
Forse il capostipite del genere può essere considerato quel genio di Robert Altman con Nashville (1975), quadro chiassoso per frammenti musicali di un’America provinciale e kitsch, e America oggi (1993, liberamente ispirato a nove storie minimaliste di Raymond Carver), curiosamente ambientato anch’esso a Los Angeles e ricco di momenti di umanissimo pathos.
Più recenti sono lo sfaccettato e sempre collocato in California Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999), il delicato Le cose che so di lei (diretto nel 2000 da Rodrigo García, figlio del premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez), il crudo Traffic (Steven Soderbergh, ancora del 2000) e l’intenso 21 grammi. Il peso dell’anima (Alejandro González Iñárritu, 2003), tutti ritratti variegati e sofferti degli Usa, e nei quali le apparenze spesso celano realtà dolorose e ben più complesse della dorata rappresentazione dello stile di vita americano.
Ad essere interpretate nell’opera di Haggis, che si collega a questo filone, sono le varie tipologie di uomini e donne che formano l’attuale collettività californiana. Da una parte ci sono il politico bianco (Brendan Fraser), che aspira ad una carica di prestigio ed è disposto a fare carte false pur di ottenerla; insieme a lui, sua moglie (Sandra Bullock) ricca e annoiata, che perde il controllo dopo l’aggressione da parte di due malviventi di colore.

Il crollo dell’american dream
A loro si contrappone la coppia nera di coniugi in carriera, che, in quanto perfettamente integrati nella società, dovrebbero essere trattati con riguardo: in fin dei conti sono l’emblema di come il sogno americano sia accessibile a chiunque riesca a riconoscere i valori made in Usa quali propri. Questi, invece, vengono trattati alla stregua di criminali da parte di un poliziotto bianco corrotto (Matt Dillon), il quale mortifica la donna di fronte ad un marito ossequioso verso regole che non gli sono valse a guadagnarsi il rispetto e la dignità.
Alter ego del poliziotto traviato è la giovane matricola idealista (Ryan Philippe), che si aggira smarrito in distretti dove è la corruzione a fare da padrona, mentre su pareti imbiancate trionfano le foto del governatore Arnold Schwarzenegger.
Tra gli altri personaggi figurano l’integerrimo detective di colore, il negoziante persiano (così male integrato da non essere in grado neppure di parlare la lingua) e il padre messicano, bistrattato da tutti, ma fedele ai valori familiari.
Ognuno, apparentemente, ha il suo ruolo ben definito, ognuno ha i suoi personali ideali ai quali obbedire, ma ventiquattro ore sono sufficienti a rimettere tutto in gioco, capovolgendo ruoli e situazioni.
Cosa succede quando le vite di questi personaggi si vengono ad incrociare? In che modo gli uni si relazionano agli altri? Da ogni incontro si origina una particolare alchimia, per cui ciascuno tira fuori il meglio o il peggio di sé, mettendo in luce aspetti che non credeva propri della sua persona.
È in questi momenti che il contatto fisico tra uomini tanto diversi si manifesta nell’unica forma possibile: quella dello scontro. Da qui l’onomatopea crash che dà il titolo al film, il quale, non a caso, inizia con lo scontro tra due macchine.
Apparentemente, può sembrare strano che il lavoro di Haggis abbia lo stesso titolo originale (Crash) di quello di David Cronenberg (1996), tratto dall'omonimo romanzo visionario di James G. Ballard (1973). Eppure, al di là della coincidenza, le opere hanno in comune il fatto di mettere in luce le ossessioni e le tensioni, al limite tra nevrosi e psicosi, del mondo odierno.

Il dramma dell’uomo contemporaneo
In un’America post 11 settembre, in cui sembrano essersi del tutto cancellati il valore della tolleranza e la speranza di una serena compresenza di popoli, il razzismo non è rivolto solo contro gli altri, ma anche verso i propri simili, traducendosi, a volte, in imbarazzo per se stessi.
Crash è un film di estrema attualità, eppure drammatico come sa essere solo un’opera dell’antica Grecia; a venire descritta è, infatti, la tragedia dell’uomo contemporaneo che, come un novello Edipo, è costretto in una particolarissima congiuntura storica.
Haggis mostra quanto sia sbagliato ricorrere a manicheismi assoluti, dividendo la realtà in buoni o cattivi. Solo sfatando i luoghi comuni si riuscirà a capire che il male non si trova da un’unica parte, ma si rivela costantemente in quanto manifestazione di paura e diffidenza.
Perché non è tutto solo bianco o nero.

Claudia Mancuso

(direfarescrivere, anno I, n. 1, dicembre 2005)
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