Cold case è il termine con cui vengono chiamati i casi irrisolti nel linguaggio poliziesco, per i quali non è mai stato trovato un colpevole. Anche l’Italia ne ha, purtroppo, un fitto elenco; basti pensare ai fatti di cronaca nera degli anni Novanta, come l’omicidio di via Poma, in cui venne uccisa Simonetta Cesaroni – a oggi ancora irrisolto – o al delitto dell’Olgiata in cui vittima fu la contessa Alberica Filo della Torre, risolto solo nel 2011, a vent’anni di distanza dall’ accaduto.
Tra questi c’è anche quello che è stato ribattezzato dalla stampa come “il caso della donna nell’armadio”, ovvero l’assassinio di Antonella Di Veroli, raccontato nell’inchiesta 40 passi. L’omicidio di Antonella Di Veroli (Sovera edizioni, pp. 192, € 15,00) il primo libro del giornalista e scrittore Mauro Valentini.
Ma chi era Antonella Di Veroli?
Non ancora cinquantenne, consulente del lavoro, viveva sola in un appartamento nel quartiere Talenti a Roma sulla via Nomentana, in una zona residenziale, signorile e ben servita. Era una donna solitaria, senza hobby particolari e appassionata del suo lavoro, con poche amicizie e scarsi rapporti familiari – se si esclude il caffè mattutino a casa della madre, che viveva davanti allo studio nel quale la Di Veroli lavorava. Delle sue relazioni sentimentali si sapeva poco, perché era una donna molto riservata: due quelle note, la prima con il collega Umberto Nardinocchi e la seconda con il fotografo Vittorio Biffani; in entrambi i casi nel ruolo dell’amante.
Il fatto
È la sera del 10 aprile 1994 quando si hanno le ultime notizie di Antonella, una telefonata alla madre e due ad altrettante amiche, poi più nulla. Dalla mattina successiva nessuno la vede o la sente più. Nemmeno la signora Ninive Colombo, che abita sotto casa della Di Veroli ed è l’unica persona ad avere le chiavi del suo appartamento. È il pomeriggio del 12 aprile quando il corpo senza vita di Antonella viene ritrovato da alcuni parenti e amici, nel ripiano più basso dell’armadio della sua camera, sotto un mucchio di lenzuola e cuscini. Due colpi di pistola alla testa e soffocata con una busta di plastica, inoltre l’anta dell’armadio stesso era stata sigillata con dello stucco per il legno. Questa la fine assurda riservata ad Antonella Di Veroli.
Gli “errori” investigativi
L’inchiesta di Valentini ben evidenzia come, nel caso Di Veroli, molti siano stati gli errori degli inquirenti, a cominciare dal mancato rilevamento delle impronte digitali della vittima, per escluderle dalla scena del crimine ed avere così il possibile riscontro di altre eventuali impronte digitali estranee. Viene inoltre “perso” il sacchetto di cellophane che l’assassino aveva utilizzato per soffocare Antonella, complicando così il lavoro del medico legale. La prova dello stub – definito l’antesignano del guanto di paraffina per rilevare i residui di polvere da sparo – viene inizialmente considerata attendibile; tuttavia non si tenne presente che, in quegli anni, dato che non esisteva ancora quello digitale, i reagenti che venivano utilizzati per sviluppare le pellicole fotografiche lasciavano particelle di nitrati, tipo quelle riscontrabili nella polvere da sparo. Inoltre a distanza di cinque anni si scoprirà che i dischetti metallici dello stub eseguiti su Biffani non appartengono a quest’ultimo, perché il Dna rilevato è incompatibile con quello del fotografo – il quale, in questo caso, è l’unico inquisito e imputato. Infine, sul ripiano dell’armadio dove era stata ritrovato il cadavere era stata rilevata l’impronta di una scarpa, e sull’anta alcune impronte digitali: per quanto possa sembrare assurdo, le parti dell’oggetto in questione, repertate nel 1994, sono andate perse.
Tra testimonianze più o meno attendibili, errori investigativi e “strane” sparizioni di reperti l’omicidio di Antonella Di Veroli non troverà mai un colpevole e un movente.
Uno dei tanti “misteri d’Italia”
Come riporta lo stesso Valentini nel suo libro, sono calzanti le parole di Corrado Augias, rilasciate nel 2012 in merito al delitto di via Poma: «La verità è che gli omicidi come questi, se non si risolvono subito, non si risolvono più». La stessa sorte sembra essere riservata a quello di Antonella Di Veroli, dimenticata nel corso degli anni anche dai mezzi di comunicazione, forse a causa dello scarso appeal mediatico del caso stesso o per la riservatezza dei familiari e, probabilmente, anche dalla maggior parte degli italiani.
Antonella Di Veroli sembrava “trasparente” quando era in vita, è stata dimenticata con la sua morte e l’occultamento del suo cadavere sigillato nell’armadio di casa; per altri dieci anni, è stata dimenticata e, quindi, “resa nuovamente trasparente” dai media che le hanno riservato ben poco spazio rispetto ad altri eclatanti “misteri d’Italia”. E dire che dal momento del suo omicidio e negli anni immediatamente successivi, di Antonella Di Veroli è stato raccontato tutto e il contrario di tutto tranne, forse, la verità.
I 40 passi di Mauro Valentini per ritrovare Antonella Di Veroli
A distanza di vent’anni, il 10 aprile 2014, l’autore ha ripercorso quei quaranta passi del vialetto che dalla zona dei garage portano all’appartamento dove aveva vissuto Antonella Di Veroli. Difatti nel suo libro Valentini descrive nei particolari la vicenda Di Veroli, dalla vita della donna alle indagini, attraverso le analisi dei documenti, parlando con esperti in diversi ambiti della scientifica e della giustizia. Il risultato della sua inchiesta in modo preciso e chiaro, come si addice a un giornalista, senza però arrivare fino in fondo per scoprire l’identità dell’assassino.
Qual era, dunque, lo scopo di questa inchiesta? Ritrovare e raccontare la “vera” Antonella Di Veroli: una donna senza dubbio sola, che cercava l’amore ma che forse non si sentiva all’altezza, adeguata. Sfuggiva dalle relazioni serie e, forse per questo, si sentiva rassicurata dai rapporti con uomini impegnati, che non avevano alcun futuro. Probabilmente il suo pudore, questa sua riservatezza e capacità di nascondere pezzi importanti della sua vita, anche agli amici e ai familiari più stretti, potrebbe esserle stata fatale, avendola portata a non rivelare forse una nuova conoscenza che poi le ha tolto la vita. Chi ha avuto modo di conoscere Antonella Di Veroli e ha voluto parlarne, la ricorda come una donna solitaria ma gentile ed educata, che amava vestirsi bene e adorava il proprio lavoro. Tra tutte le cose scritte e dette su di lei, subito dopo il suo omicidio, ben poche possono ritenersi corrette, soprattutto quelle che la descrivevano come una donna cattiva, con dei comportamenti estremi e magari “in cerca di guai”. Come fosse il contrario viene ribadito dallo stesso autore, che racconta tutta la storia di Antonella con estrema sensibilità.
Elisa Barchetta
(direfarescrivere, anno XIII, n. 141, ottobre 2017)
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