«Per poter aspirare alla luce si deve aver conosciuto il torbido, l’affanno, il dubbio», «Vaneggio e ho solo voglia di scavare dentro me, ho bisogno di aprire i miei pensieri e sarei felice di conoscere i tuoi. Voglio solo conoscerti, non volevo aprire le tue ferite, non chiuderti e non abbassare lo sguardo», disse lui.
E lei: «Nemmeno io conosco i miei pensieri o forse non ho voglia di conoscerli, voglio vivere libera senza pesi e senza dover dar conto a nessuno, mentre a volte finisco per dar conto a me stessa. Non è colpa tua, tu piuttosto mettiti a tuo agio. Ora ti faccio un massaggio».
Lui: «La mia mente per rilassarsi deve vagare non svuotarsi o finisco vittima della noia».
Lei: «Io riesco a trovare pace solo annullandomi».
A questo punto lui trova triste tutto ciò e chiede alla donna quale sia la sua storia, il suo passato, e lei risponde di non avere né storia, né passato e che sa solo di essere qui ora.
Questo è l’incipit del romanzo astratto 7 Pagine bianche di Fabio Bacile di Castiglione (Salento Books, pp. 78, € 12,00), un romanzo, un dialogo senza freni, un susseguirsi di liberi flussi di coscienza, senza una storia da raccontare, ma con un’armonia complessiva. Nel testo ci sono astrazioni geometriche, forme di pensiero definite che intrecciandosi tra loro creano una suggestione d’insieme, come per la pittura astratta.
La voce di Andreea
L’idea è quella di uno scritto breve, veloce, che non racconta ma suggerisce, pieno di contraddizioni, che pone dubbi e domande senza dare risposte.
L’autore si lascia influenzare dalla notizia della morte di Andreea Cristina Zamfir, 26 anni, prostituta romena, tossicodipendente, seviziata. Questa fine gli provoca grande dolore: «Mi è parso di sentire qualche stupida voce commentare: “Tanto era una puttana”, e nel mio pensiero questa donna si materializzava lì in croce come il figlio dell’uomo che tutti ha amato, anche le prostitute, persino i loro clienti, anche gli assassini, perfino i suoi assassini».
Da questa riflessione nasce un testo particolare nella forma, dal senso profondo, in cui lo scrittore immagina di parlare con Andreea facendone emergere la dolcezza, la spensieratezza, l’innocenza. Rapportandosi a lei, si mette in evidenza il lato “immorale”, fragile, umano che è in ciascuno di noi. Il libro genera così uno spunto di riflessione sulla nostra esistenza e su quella di tante donne, vittime della tratta o, altrimenti, costrette per necessità a praticare una professione per cui la vita vale zero.
Il romanzo è la voce di chi non ha voce, di chi muore senza nome, nel silenzio del mondo, senza identità. È un riscatto per tutte quelle donne che prima di essere prostitute sono, appunto, donne, con il loro modo di sentire, di amare, di essere madri, figlie, anime e cuore pulsante del mondo. Un dialogo che squarcia il vuoto deserto dell’umanità, indifferente davanti al corpo senza vita della Zamfir e alla morte di tante altre vittime che, come Cristo, oltre a essa subiscono anche gli insulti, la beffa, il giudizio.
Oltre l’apparenza c’è la vita
Lui: «L’uomo è l’essere razionale per eccellenza».
Lei: «Non è vero, siamo irrazionali e immotivatamente crudeli. Come quando in spiaggia vedi il venditore ambulante marocchino sotto il sole torrido trascinare a fatica la sua merce e tu inizi a trattare il prezzo, finendo per non acquistarlo per pochi euro di differenza, mentre in un’altra occasione in un negozio lussuoso, alla vista di un commesso snob che ti propone un oggetto, lo pagherai una cifra assurda conscio che in breve tempo l’acquisto sarà fuori moda».
Lui: «Credo in realtà che questo dipenda da un mondo che guarda solo in superficie e si preoccupa solo dell’apparire, cultura e conoscenza sono responsabilità spesso faticose se non dolorose».
I temi trattati all’interno della conversazione sono molteplici: la crudeltà, l’apparenza, la giustizia, la verità, il denaro, la bellezza, la figura del padre, il dialogo e la parola; mentre le scene di intimità che si interpongono, sapientemente descritte, suscitano emozione. 7 Pagine bianche è un invito ad andare oltre le apparenze, a mettere da parte la scorza per giungere fino alla polpa, ma è anche un inno alla vita, un dire sì all’esistenza con tutti gli errori che comporta: nonostante tutto la vita vale la pena di essere vissuta, perché noi siamo il risultato di tutte le nostre esperienze.
Lei: «Se penso alla vita penso a un disegno pieno di graffi, segni, macchie e correzioni. Non ci sono cancellature, lo scorrere degli eventi non permette l’esistenza di una gomma per cancellare. Ci sono solo correzioni, che a volte vengono bene e quasi non si vedono, altre volte lasciano invece marchiane sbavature».
Un libro coinvolgente che si legge per deduzione e secondo diverse interpretazioni personali, con un finale ambiguo, che si sottrae a qualsivoglia pretesa di univocità: un testo in cui ogni lettore può intravedere squarci di sé, da cui ognuno può iniziare a scrivere la propria esistenza.
Gilda Pucci
(direfarescrivere, anno XIII, n. 137 , giugno 2017)
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