Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La cultura, probabilmente
Genesi ed estetica del teatro d’opera:
breve diario sulle origini e lo sviluppo
del genere italiano per eccellenza
Excursus temporale alla scoperta dei protagonisti
della elaborazione musicale orgoglio della nostra tradizione
di Emanuela Cangemi
Con il termine “opera”, o “opera in musica”, si identifica quello specifico spettacolo in cui l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto. Dato che al suo interno si ha la presenza anche di scenografie e azioni coreografiche, l’opera può essere considerata una delle manifestazioni artistiche più complesse. Suo sinonimo è “melodramma”, ma nel corso dei secoli e a livello mondiale l’opera ha conosciuto varie forme strutturali e annesse denominazioni: “opera seria”, “opera buffa”, “opera comica”, “Singspiel”, “opéra-comique”, “grand-opéra”, “opéra-ballet”, “tragédie-lyrique”. Da queste derivano altre forme minori, come per esempio: l’“operetta”, l’“intermezzo”, la “burletta” e la “farsa”.
Il melodramma, definito opera seria, è il prodotto della civiltà italiana del Rinascimento, e si sviluppa, a partire dal periodo estetico definito Barocco, come una delle maggiori forme musicali, ma soprattutto rappresenta quel genere musicale che più di tutti è riuscito a penetrare nella vita sociale, mutando la sua funzione di volta in volta in fonte di godimento, di diffusione culturale, di mezzo di conoscenza. Quel mondo fantasioso e realistico, dalle trame melodrammatiche, dove la realtà viene esasperata, ferita, amplificata, e la fantasia del poter essere felici, è resa reale.
È grazie all’Italia e ai suoi compositori che tale forma viene apprezzata e adottata in tutto il mondo sia nella tipologia stilistica definita seria, sia in quella buffa. Ricordiamo, per esempio, l’operato in Germania e in Francia dei compositori Luigi Cherubini, Niccolò Vito Piccinni, Gioachino Antonio Rossini, Antonio Sacchini; e, ancora, Domenico Cimarosa, Baldassarre Galuppi, Giovanni Paisiello, Giuseppe Sarti, che introdussero l’opera di stampo italiano in Russia.
Nel corso dei secoli è stata anche una delle forme musicali più discusse nonché palcoscenico di diatribe sull’argomento: musica o canto? Parola al servizio della musica o musica al servizio della parola? Discussioni, queste, che hanno diviso il parere di musicisti, letterati e teorici che si sono limitati a imporre regole e divieti, senza mai risolvere il quesito; probabilmente perché da sempre la musica ha collaborato con la parola e viceversa, e se emergono “questioni”, probabilmente è solo la volontà dell’uomo “storico” ad «alzare polveroni inutili».

Nascita estetica e formale del genere operistico
L’unione della musica e della parola, fin dall’origine, ha dato vita a manifestazioni spettacolari, apprezzate dalle civiltà mondiali, sia da quelle definite colte che da quelle definite incolte. Sono, infatti, diverse le fonti che attestano la presenza di una forma di melodramma in molte delle civiltà antiche. Nella cultura occidentale, fu determinante per la nascita dell’opera teatrale l’esempio del teatro greco (la tragedia greca discendente a sua volta dal canto definito “ditirambo” in onore del dio Dionisio), che interessò gli studiosi del Rinascimento.
Intorno alla metà del Cinquecento, l’interesse musicale si spostò dallo stile polifonico allo stile monodico. Musicalmente, infatti, composizioni polifoniche quali la “frottola” o la “villanella” potevano essere eseguite anche in stile monodico, ovvero con voce solista e strumenti. Nello stesso periodo, era in voga improvvisare melodie su ottave o sonetti di autori come, per esempio, l’Ariosto. Questi erano impiantati su un basso, che si presentava ripetitivo melodicamente e ritmicamente. E, ancora, altra forma monodica importante dell’epoca fu l’intermedio, fiorito a Firenze.
Ma l’interesse del periodo estetico rinascimentale verso la monodia non fu prettamente musicale nella pratica vocale e strumentale; questo venne accolto anche tra i teorici del tempo: letterati, poeti e musicisti. La prima “compagnia” di teorici fu la Camerata fiorentina o Camerata de’ Bardi, che si riuniva presso la casa del conte Giovanni Bardi del Vernio a Firenze. Facevano parte di questo gruppo il cantore romano Giulio Caccini, il teorico musicale Vincenzo Galilei, il letterato e umanista Girolamo Mei, i musicisti Jacopo Peri e Emilio De’ Cavalieri, oltre al primo librettista della storia della musica occidentale Ottavio Rinuccini e ai letterati Gabriello Chiabrera e Jacopo Corsi.
Galilei fu il principale teorico del movimento. Nel suo trattato Dialogo della musica antica et moderna, dichiarò che lo stile musicale monodico doveva sostituire quello polifonico, in quanto permetteva maggiore e migliore comprensione della parola che accompagnava e perché riusciva a stimolare più efficacemente l’emotività dell’ascoltatore.
Quella che il teorico Galilei definiva monodia perfetta si avvicinava ad una declamazione naturale, priva di madrigalismi (ovvero ripetizioni di parole per soli scopi musicali) su cellule ritmiche di danze presenti in alcune forme musicali monodiche come, per esempio, la già citata villanella.
La formulazione del teorico Galilei sulla monodia perfetta trovava le sue radici nella tragedia greca. I Greci, maestri di tutte le arti, non adoperavano uno stile polifonico d’accompagnamento, bensì uno stile di “recitar cantando”, che doveva essere preso come modello. Secondo Galilei e la stessa Camerata, la tragedia greca, era interamente cantata e, per riprodurre i medesimi effetti della musica greca, si doveva coniare un tipo di emissione vocale come via di mezzo tra canto e recitazione, che venne definito “recitar cantando”.
La Camerata de’ Bardi, in sintesi, fornì un primo manifesto estetico e una prima teorizzazione sul rapporto tra musica e dramma, cioè tra parola e canto.
La seconda Camerata fu quella di casa Corsi, composta sempre dagli stessi elementi, ma a differenza della precedente, che fu più teorica, in questo gruppo, e per mano soprattutto del librettista Rinuccini e del musicista Peri, si crearono eventi musicali concreti.
La prima opera composta nello stile recitar cantando, cioè un canto monodico accompagnato da semplici armonie realizzate da strumenti, fu la Dafne, del 1597, su versi di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Corsi e Jacopo Peri, anche se quella a noi pervenuta è l’Euridice, composta nel 1600 dal cantore Giulio Caccini, dal musicista Peri su libretto di Rinuccini. Sempre nel 1600 a Roma, una terza Camerata, guidata dal musicista Emilio De’ Cavalieri, esibì la Rappresentazione di Anima et di corpo, considerata anche il primo “oratorio” della storia musicale occidentale.
È doveroso ricordare, infine, che vari spettacoli medievali presentati in determinati periodi festivi dell’anno, forme di spettacolo liturgiche ed extraliturgiche come, per esempio, “passioni”, “misteri”, “canzonette”, “balletti”, “intermedi”, “pastorali” vennero tutte a coagularsi nel genere dell’opera teatrale. Altrettanto doveroso è citare la prima forma di spettacolo considerata vera e propria opera ante litteram: Le Jeu de Robin et Marion di Adam de la Halle, rappresentata presso la corte di Napoli nel 1282.

L’opera teatrale nel 1600
La struttura formale dell’opera si completò nel Seicento grazie a colui che segnò l’atto di nascita del melodramma, Claudio Monteverdi. Probabilmente, dopo aver partecipato alla rappresentazione dell’Euridice, il duca di Gonzaga commissionò al Monteverdi un’opera nel nuovo stile. Nacque così La favola di Orfeo, su libretto di Alessandro Striggio, rappresentata all’Accademia degli Invaghiti il 24 febbraio 1607 a Mantova. In questa opera, si delineano caratteristiche che si conserveranno nel corso dei secoli, come per esempio: la distinzione precisa tra recitativo e aria, presenza di ritornelli, forma strofica, inserimento di danze.
La favola di Orfeo è considerata il primo melodramma della storia, ma al Monteverdi viene attribuito anche il merito di aver dato le basi all’orchestra moderna. I musicisti presenti nella compagine orchestrale impegnati nell’accompagnamento dell’opera erano trentacinque. L’opera era preceduta da una “toccata” per strumenti a fiato. In generale gli strumenti amplificavano musicalmente, e quindi empaticamente, la parola.
Le successive opere furono l’Arianna, che è andata perduta (rimane solo il famoso lamento Lasciatemi morire), e il Ballo delle ingrate.
Significativo per lo sviluppo dell’opera fu l’inaugurazione del primo teatro pubblico, il San Cassiano, a Venezia nel 1637. Perché fu importante? Innanzitutto perché l’apertura di un teatro pubblico portava l’opera a non essere solo ed esclusivamente un privilegio per gli aristocratici, bensì uno spettacolo per tutto il popolo. Uscendo dalla corte, l’opera modificò la sua concezione rigida ideata dalla Camerata fiorentina; nacque così la figura dell’impresario, il quale con la vendita dei biglietti pagava tutti coloro che partecipavano all’allestimento dell’opera escluso il librettista, che ricavava denaro dalla vendita dei libretti. Le trame riportate nei libretti stessi erano desunte dalla letteratura mitologica, ma specificatamente a Venezia si sviluppò il filone riguardante la storia antica e, sotto l’influenza della guerra contro i Turchi, prevalsero trame eroiche, i cui protagonisti erano i grandi condottieri dell’antichità. Proprio per questo motivo, le ultime opere del Monteverdi, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea, incarnano queste nuove richieste.
Musicalmente la struttura dell’opera del compositore Monteverdi, rispetto alle opere del Peri e del Caccini, presentavano il recitar cantando sotto forma di “arioso”, cioè una via di mezzo tra il futuro “recitativo” (dato da una semplice struttura armonica e melodica) e “l’aria” (il momento lirico emozionale).
Dopo la morte di Claudio Monteverdi, la Scuola veneziana proseguì con tre principali esponenti: Francesco Cavalli, Antonio Cesti e Giovanni Legrenzi. I primi due portarono su una nuova strada il melodramma, mentre il Legrenzi si dedicò soprattutto al genere musicale dell’oratorio.
Nello specifico le modifiche apportate dal Gesti e dal Cavalli furono:
- l’arioso si tramutò in recitativo, che mandava avanti l’azione scenica, e in aria, che descriveva ed esternava sentimenti ed emozioni
- le melodie ebbero spesso carattere di canzone popolare
- l’opera veniva introdotta da una sinfonia affidata alla fanfara
- l’orchestra con “pezzi strumentali”, detti “ritornelli”, precedeva e seguiva l’aria
- il cantante divenne l’attrazione principale dell’opera; per lui venivano composte “arie di bravura”, che presentavano vocalizzi e passaggi tecnici difficili, con lo scopo di evidenziare il virtuosismo dell’interprete
- al coro presente venne affidato un ruolo minore
- la struttura dell’aria si presentava in una tonalità d’impianto, dalla quale ci si allontanava, per poi farne ritorno
- le scene e i costumi divennero sontuosi.
Dello stesso periodo è anche la Scuola romana, che dopo la scomparsa di Emilio De’ Cavalieri vide il suo fiorire per l’opera dei musicisti Stefano Landi, Virgilio Mazzocchi,Michel Angelo Rossi, Loreto Vittori.
A Roma, corte pontificia, l’opera d’argomento profano trovò accoglienza nei singoli palazzi della nobiltà e dei cardinali. La famiglia Barberini, imparentata con il papa Urbano VIII, aprì un teatro.
I temi trattati in queste opere, oltre alle trame desunte dalla mitologia classica, riguardavano “intrecci” estrapolati dalla vita dei santi o da altri “contesti”, dai quali, però, si potesse trarre una conclusione edificante.
L’opera a Roma introduce una nuova caratteristica: l’elemento comico.
Il compositore Landi concepì il Sant’Alessio, che fu la prima opera rappresentata presso il teatro Barberini; il compositore Mazzocchi scrisse Chi soffre speri e il compositore Rossi l’Erminia sul Giordano; ma l’opera romana risultò meno spettacolare rispetto a quella veneziana.
Altro punto cardine della seconda metà del periodo è la nascita, come sistema, del “bel canto”, ovvero l’arte del cantare bene, che trova il suo massimo sviluppo tramite l’operato di Alessandro Scarlatti, massimo rappresentante della Scuola napoletana. Egli stabilisce come regola l’aria col “da capo”, data dalla formula A-B-Aᶥ, dove Aᶥ indica il ritorno alla tonalità d’impianto con la variante da parte del cantante che poteva dimostrare tutta la sua bravura.

L’opera teatrale nel 1700
Il Settecento è segnato da due riforme importanti che modificarono la struttura e la concezione dell’opera stessa.
Una è la riforma avvenuta per mano del letterato Apostolo Zeno e del Metastasio (Pietro Trapassi), che con il loro operato contribuirono a ridare dignità letteraria al dramma per musica. Nello specifico:
- all’interno della trama narrativa dell’opera seria venne eliminato ogni elemento comico, contribuendo così, inconsapevolmente, allo sviluppo degli intermezzi
- costituirono uno schema fisso di scena drammatica, dato dalla separazione dell’azione (assegnata ai recitativi), dall’effusione lirica (assegnate alle arie).
Altra importante riforma fu quella del musicista Christoph Willibald Gluck e del letterato librettista Ranieri de’ Calzabigi, i quali, seguendo i canoni della tragedia greca, sostennero la maggiore “unitarietà” del dramma ottenuta seguendo alcuni punti da loro ritenuti importanti:
- sinfonia d’apertura con l’obiettivo di introdurre gli ascoltatori nell’atmosfera dell’azione che seguirà
- divieto ai cantanti di eccedere in virtuosismi eliminando il da capo dell’aria
- unione musicale data da melodie capaci di “assecondare” meglio la parola, saldando, così, in successioni semplici i recitativi che da “secchi” diventano “obbligati” unendosi alle arie
- il coro assume il ruolo di personaggio
- passaggio da cinque a tre atti
- poche danze
- minimi mutamenti scenici
- orchestra con ruolo attivo e non mero accompagnamento
- verosimiglianza scenica.
Ma il Settecento, oltre ad essere importante per le riforme avvenute, dà i natali anche all’opera buffa, la quale, distaccatasi dall’opera seria, si organizzò subito con maggiore libertà di forme e di contenuti, grazie anche alle solidi radici popolari.
L’opera buffa, a differenza dell’austera opera seria, si presentava leggera e lieve, i personaggi rappresentavano contesti di vita quotidiana e le melodie ostentavano carattere popolare. I recitativi divennero rapidi, quasi declamati, molto simili al linguaggio parlato, e il finale fu affidato al coro.
Le sue origini sono da ricercare negli intermezzi, ovvero un’azione comica in musica di carattere leggero che si rappresentava fra un atto e l’altro di un’opera seria. Questi si svilupparono soprattutto per mano della Scuola napoletana, godendo di un grande favore popolare e raggiungendo la loro più alta espressione nella prima metà del secolo. Tra i maggiori compositori citiamo: Francesco Durante, Francesco Feo, Niccolò Jommelli, Leonardo Leo.
La vera storia dell’opera buffa inizia con la rappresentazione di La serva padrona, un intermezzo di Giovanni Battista Pergolesi posto nel mezzo dell’opera seria Il prigionier superbo, che ottenne un vero trionfo tanto da diventare “forma” autonoma al di fuori del dramma al quale era destinato. Questo intermezzo viene ricordato anche in seguito alla famosa querelle des bouffons fra gli opposti schieramenti dei sostenitori dell’opera francese, rappresentati dal compositore e teorico musicale Jean-Philippe Rameau, e dei filoitaliani, rappresentati dagli enciclopedisti. Ma al di là del valore di questa celebre disputa o polemica, La serva padrona costituisce una tappa fondamentale nell’evoluzione del teatro musicale; infatti, con essa la forma intermezzo, si eleva a opera buffa.
Nel 1760, fu rappresentata Cecchina ossia la buona figliola di Niccolò Vito Piccinni su libretto di Carlo Goldoni, che si inserisce nel filone sentimentale. Con personaggi dal carattere delicato e passionale, la vicenda drammatica è calata nella tipologia dell’opera buffa che stempera i drammi nel sorriso e che, a sua volta, si colora di un’intensa vena poetica.
Il 1700 risulta essere anche “l’apogeo” del bel canto. Dopo Alessandro Scarlatti, i compositori favorevoli al bel canto furono: Francesco Feo, Baldassarre Galuppi, Leonardo Leo, che composero lunghi passaggi pieni di fioriture per il cantante, tanto da risultare superiore perfino alla stessa trama operistica e contribuendo man mano alla decadenza del genere.

L’opera teatrale nel 1800
Nel 1800, l’Italia musicale si applicò esclusivamente al genere musicale dell’opera, in quanto la mancanza di un ceto sociale medio, portatore di autonomi valori culturali, la carenza di un’unità politica e la debolissima penetrazione dell’ideologia romantica e dell’annessa concezione metafisica della musica strumentale portarono al non fiorire in patria delle “Società di concerti”, presenti nelle altre nazioni. In questo secolo, l’opera all’italiana perde il predominio europeo che aveva avuto nei secoli precedenti.
All’interno della struttura operistica italiana, avvengono delle modifiche:
- il virtuosismo canoro fine a se stesso andò sempre di più affievolendosi, anche se il canto mantenne sempre la sua posizione dominante
- scomparvero i “castrati”
- si evidenziarono i caratteri dei personaggi, che aumentarono anche di numero, dando luogo a pezzi d’assieme (dal trio al settimino) fino al “concertato finale” con il coro
- verso la fine del secolo il recitativo divenne più espressivo e si fuse con l’“aria”
- l’orchestra generalmente servì da sottofondo e venne ampliata
- a metà secolo, si cercò di creare un’unità formale abolendo la divisione dell’opera in pezzi distinti
- la concezione drammaturgica si concentrò sull’espressione della verità drammatica, tanto che verso la fine del secolo si afferma il Verismo
- il movimento estetico del Romanticismo fu inteso in Italia come prevalere del cuore e delle emozioni rispetto alla ragione.
L’opera italiana dell’Ottocento è dominata da quattro grandi figure: Gioachino Antonio Rossini, Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini.
Il compositore Rossini apportò modifiche sia all’opera buffa che a quella seria, dominando le scene fino al 1830.
Con i compositori Bellini e Donizetti nacque il vero teatro musicale romantico italiano, riportando tratti caratteristici tipici come i finali tragici, l’inserimento di melodie e armonie popolari e trame desunte dalla storia medievale e moderna, con personaggi che risultano vittime innocenti o eroi rinunciatari.
Con il Verdi il linguaggio musicale si accostò alle altre correnti idiomatiche europee, mentre la concezione del dramma musicale non cambiò, presentandosi sempre passionale, posta al servizio della situazione scenica e rappresentando il conflitto tra i personaggi sempre in “bilico” nella scelta tra il bene e il male; ricco di colpi di scena, sull’innocenza perseguitata e riconosciuta o sulla morte liberatrice.

L’opera teatrale nel 1900
Il teatro d’opera nel Novecento non è più teatro popolare, per questo gli esempi operistici del secolo non vengono inseriti nella storia dell’opera, ma in quella dei singoli compositori.
Ugualmente, negli ultimi anni dell’Ottocento prende vita la corrente verista con Giacomo Puccini, che si impone per tutta la prima parte del Novecento e che risulterà il compositore tanto più amato dal popolo quanto disprezzato dalla critica.
Anche nel contesto operistico avvengono sperimentazioni musicali delle avanguardie, come per esempio il tentativo di Ildebrando Pizzetti di tornare all’antico recitar cantando; esperimento, questo, che rimarrà chiuso in sé.
Il compositore del Novecento si pone davanti all’opera come un esperimento individuale, e gli italiani che concepirono questa tendenza furono: Luigi Dallapiccola, Giorgio Federico Ghedini, Riccardo Malipiero, Goffredo Petrassi.
Questi compositori affrontarono il “rinnovo” dell’opera teatrale in modo diverso, respingendo o accogliendo la tradizione, rinnovando o alternando i segni caratteristici della forma e influenzandosi a vicenda.
In linea di massima i compositori del Novecento, nei confronti del genere opera teatrale, seguirono tre importanti tendenze principali:
- la prima unisce la struttura classica a soggetti contemporanei (forme neoclassiche o neotradizionalisti)
- la seconda concepisce l’opera come una “favola in musica” continuamente aggiornabile nel linguaggio e rinnovabile negli schemi
- la terza è quella che ritiene obsoleta la forma operistica, ma nello stesso tempo si sente attratta dalla forma stessa. Da questa tendenza nascono forme ibride di “antiopera”, dove i compositori utilizzano la forma per esternare pensieri ed emozioni; tra gli italiani citiamo: Luciano Berio, Sylvano Bussotti, Luigi Nono.
Dopo il 1980, i compositori hanno nuovamente mostrato interesse per la forma.

Sguardo riassuntivo sul progressivo sviluppo della struttura dell’opera
Musicalmente, l’opera teatrale risulta essere l’unione di parti cantate in modo solistico o in formazione a più voci e parti strumentali.
Le parti cantate più importanti sono il recitativo e l’aria, due stili di canto diversi tra loro in quanto il primo rappresenta il momento narrativo, mentre la seconda esterna la massima tensione emotiva.
Probabilmente, la distinzione tra questi due stili in Occidente deriva dal Medioevo. Gli antichi teorici musicali dividevano la struttura del “canto piano” (Cantus planus) in accentus, cioè un canto sillabico intonato su una stessa altezza, e concentus, più melodico.
La Camerata fiorentina, o Bardi, il gruppo di musicisti e letterati alla quale è legata la nascita del melodramma, presentarono uno stile vocale definito recitar cantando, una via di mezzo tra il declamato e il canto.
Una prima distinzione dei due stili all’interno della struttura operistica e in relazione alle trame presentate si ha con Claudio Monteverdi, che definisce recitativo lo stile di canto ispirato al linguaggio umano che conveniva a figure di semplici uomini o semplici donne, mentre ai personaggi importanti conveniva il canto “di garbo”, definito in seguito aria, un canto più elaborato e ricco.
Questa distinzione monteverdiana caratterizzerà il melodramma e lo stile italiani, fino a Giachino Antonio Rossini.
Il recitativo è uno stile di canto, una recitazione intonata che si avvicina alla naturalezza e alla flessibilità della lingua parlata. È caratterizzato da due elementi fondamentali:
- ritmo libero e irregolare modellato su quello verbale
- mancanza di un’autonoma struttura formale, sostituita da un libero modellarsi della musica sul testo parlato.
Il recitativo, nell’arco della storia del melodramma, si è presentato come:
- recitativo semplice, definito nel 1800 “secco”, in cui la voce è sostenuta dal solo basso continuo, come per esempio il recitativo presente nel melodramma sette-ottocentesco che era sostenuto dal clavicembalo
- recitativo accompagnato, o obbligato, o strumentato, oltre a musicato, in quanto alla voce si uniscono più strumenti o l’intera orchestra.
L’aria è uno stile di canto strofico con una forma stabilita e viene accompagnata da strumenti musicali.
Le sue origini, come il recitativo, sono da ricercare nel recitar cantando, ma anche in alcune forme vocali del passato, come per esempio l’air de cour fiorita in Francia.
Già nell’Euridice di Jacopo Peri e Giulio Caccini, accanto al canto declamato si evidenziarono periodi musicali cantati strofici, mentre nell’Orfeo di Claudio Monteverdi si presenterà la medesima struttura, auspicando lo schema tripartito che diverrà tipico della struttura formale dell’aria all’italiana.
Nel Seicento, la forma dell’aria era bipartita A-Aᶥ, dove la prima parte (A) ritornava variata (Aᶥ) oppure nella forma A-B, dove la seconda parte (B) era diversa dalla prima (A). In seguito, per opera di Luigi Rossi, ma soprattutto grazie ad Alessandro Scarlatti, la forma strutturale dell’aria divenne tripartita col da capo, con lo schema formale A-B-Aᶥ, dove l’ultima parte viene ripetuta ma variata dall’esecutore.
Dalla fine del Seicento, l’aria e il cantante divennero l’attrazione principale della rappresentazione operistica, trasformando il melodramma in un susseguirsi di arie che avevano l’obiettivo di evidenziare la bravura del cantante. Molto richiesti erano i castrati, che con il loro virtuosismo conquistavano il pubblico. Nacquero così varie tipologie di arie, come per esempio: di sortita, di bravura, cantabile, di mezzo carattere, ecc., ma fu proprio questa esagerazione da parte dei cantanti a condurre alle riforme avvenute nel Settecento, che ristabilirono l’equilibrio poetico e drammatico nel melodramma.
Nell’Ottocento, si introdussero la “cavatina” (in una o due parti senza da capo), la “cabaletta” (un tempo moderato seguito da un finale vivace) e la “romanza” (di forma indeterminata e di grande espansione lirica).
Nella struttura dell’opera buffa erano previsti duetti, terzetti e pezzi d’assieme, ma non erano previsti i castrati. Si adoperò una tipologia di aria più breve e senza ripresa, posta dopo un recitativo obbligato e, a fine atto, si presentava il concertato, ovvero tutti i personaggi o almeno i più importanti in scena.
La prima compagine strumentale che accompagnava la rappresentazione operistica era formata da piccoli raggruppamenti strumentali della stessa famiglia o da famiglie diverse.
Questa formazione veniva definita “concerto” e comprendeva pochi musicisti.
Solo all’inizio del Seicento, sul frontespizio cominciò ad apparire l’indicazione degli strumenti presenti nella struttura operistica, ma nei primi esempi di opera, visto che la musica era considerata subordinata al testo, i musicisti erano a volte collocati al di là delle scene.
Con il compositore Monteverdi la compagine orchestrale migliora, sia numericamente sia come ruolo, non più mero accompagnamento, ma elemento copartecipante, chiamato ad amplificare empaticamente il significato della parola.
L’orchestra barocca delinea l’egemonia degli archi, che sarà caratteristica importante e permanente; si evidenzia il timbro strumentale e si sfruttano le “possibilità” espressive degli strumenti, come per esempio i pizzicati, la sordina e i tremoli degli archi; inoltre, con Antonio Vivaldi si introducono gli strumenti a fiato.
L’orchestra del periodo classico, oltre al gruppo degli archi, all’oboe, al fagotto e alle trombe, aggiunse i corni, i clarinetti e il flauto traverso.
L’orchestra romantica deriva direttamente da quella classica, ma se ne differenzia per un più preciso sfruttamento delle possibilità tecniche ed espressive di ogni strumento e per un uso più indipendente degli strumenti a fiato. Dopo il 1830, la sezione dei fiati si arricchisce: oltre ai tromboni ci sarà il basso tuba, e questo ampliamento modificherà anche la concezione acustico-spaziale dell’orchestra all’interno del teatro. Viene concepito in questo periodo quello spazio dedicato all’orchestra sotto il livello della platea, definito “golfo mistico”.
L’orchestra nel Novecento punta soprattutto alla ricchezza timbrica, si potenzia la quarta sezione orchestrale, ovvero le percussioni.
In un excursus “fugace”, si è voluto mettere in evidenza l’origine dell’ opera teatrale, una forma musicale di “stampo” italiano, della quale ogni cittadino dovrebbe andare fiero.
L’opera nasce come idea in Italia e qui si sviluppa. I compositori italiani si sono sempre dedicati a questo genere, donando “pagine” di musica ancora attuali e apprezzabili e, come già scritto e dimostrato, sono riusciti a far apprezzare l’opera teatrale nel mondo.
Dentro a una rappresentazione operistica ci sono pensieri ed emozioni di un letterato e di un musicista, che insieme, attraverso un lavoro dettagliato, sentono l’esigenza di renderci partecipi di un loro elaborato cognitivo ed emotivo, di pensieri ed emozioni racchiusi in un messaggio, di una morale su cui riflettere, creando uno spettacolo in musica, dove per musica si intende: strumenti musicali e strumenti vocali.
Lo strumento del cantante è la sua voce. Quando un cantante si esprime, adopera il linguaggio musicale, non semplicemente il linguaggio parlato.
La musica (strumenti e voci), proprio come la parola, è un linguaggio capito e apprezzato da tutti, e forse questo è ciò che rende “sublime” una rappresentazione operistica, dove il pubblico viene coinvolto attraverso i sensi dell’udito e della vista, percependo empaticamente le emozioni degli strumentisti e dei cantanti.
L’opera teatrale: quel mondo fantasioso e realistico dalle trame melodrammatiche, dove la realtà viene esasperata, ferita, amplificata, e la fantasia del poter essere felici è resa reale.

Emanuela Cangemi

(direfarescrivere, anno XII, n. 131, dicembre 2016)
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