«La nostra fortuna è che […] Giovanni Russo non sia solo un filosofo naturale, ma anche un convincente saggista, già autore di numerose e accreditate pubblicazioni su quei luoghi, e che abbia il raro dono di rendere le sue congetture comprensibili e condivisibili da un vasto pubblico di studiosi e appassionati, non solo con argomentazioni originali, ma anche con un ricco corredo di citazioni bibliografiche, della più disparata provenienza. Ricerca, sintesi, enunciazione. Un altro, non minore, colpo di fortuna è quello che ha fatto divenire amici Giovanni Russo e Pietro Rotondaro: quest’ultimo riesce a raccontare con le immagini ciò che il primo non potrebbe con la sola parola. Ed ecco quindi che il lettore potrà di volta in volta nel corso dell’esposizione immaginarsi uomo del neolitico, antico greco, indigeno, longobardo o monaco, lungo questo itinerario cruciale, immerso in una vegetazione lussureggiante tra aspre catene montuose». Così scrive Pier Franco Gangemi nella sua Presentazione del volume di Giovanni Russo La via del sale dallo Ionio al Tirreno, tra Magna Grecia e Mercurion (Ferrari, pp. 64, € 13,50). Nato nel 1960 a Orsomarso, nel cosentino, l’autore vive e lavora a Firenze, città dove ha conseguito la laurea in Lingue e Letterature straniere. Con Ferrari ha già pubblicato La valle dei monasteri (2011) e Viaggio nel Mercurion (2013), saggi dai quali emerge la sua passione per la paziente ricostruzione storica del monachesimo basiliano e calabro-bizantino.
Le carovane del sale verso Sibari, culla dell’edonismo
Federico Fellini avrebbe potuto tranquillamente ambientare sia La dolce vita che il suo Satyricon a Sibari, la greca Sybaris, fondata intorno al 750 a.C., dove il golfo di Taranto si affaccia sullo Ionio, alla confluenza dei fiumi Crati e Coscile, congiunti a pochi chilometri dal mare. Al culmine del suo splendore, Sibari divenne una vera e propria metropoli della Magna Grecia: trecentomila abitanti, immense ricchezze, sensualità e mollezza, fasto e lussuria sfrenati, al punto che ancora secoli dopo il termine “sibarita” si usava comunemente per definire una persona dedita alla crapula e ai piaceri carnali. Dopo alcuni decenni di decadenza, fu fatale ai sibariti lo scontro con la rivale Crotone, patria del filosofo Pitagora: nel 510 a.C. la Las Vegas della Magna Grecia subiva una sconfitta in battaglia e un devastante saccheggio, da cui non si sarebbe mai più risollevata. «Si suppone – racconta Russo – che in età classica una delle vie istmiche da Sibari conducesse al Tirreno. Gli studiosi immaginano che questa seguisse il percorso del fiume Coscile, l’antico Sybaris». Un itinerario che da Sibari raggiungeva Laos, colonia achea sul Tirreno. «Il commercio – prosegue l’autore – rappresentava una delle attività principali del popolo dei Laiei o Laini che si era stanziato nel tratto di territorio a nord di Punta Cirella, oltre il torrente Magarosa che scorre tra gli attuali comuni di Maierà e Santa Maria del Cedro. Tale popolazione era certamente di origine anatolica, strettamente imparentata con le altre che abitavano la costa calabrese tirrenica settentrionale. Da Emilio Barillaro apprendiamo, infatti, che l’Anatolia, Ana-Hithalia, altri non era se non l’Italia d’Oriente». Furono proprio i Laini, adoratori del toro sacro, a fondare Laos. E la loro «capacità di controllare l’immane flusso di nuovi coloni e i traffici commerciali tra Grecia ed Etruria consentì a Sibari di diventare la città più ricca e più invidiata di tutta la Magna Grecia». La via istmica ipotizzata dagli storici «risaliva il corso del Sybaris, l’attuale Coscile, passando per Morano, Campo Tenese e Laino, per ridiscendere, attraverso il corso del fiume Lao, nei pressi dell’omonima città, da dove, via mare, era possibile proseguire per Poseidon». Russo invita, invece, a riflettere sull’ipotesi che la via più breve e più praticata tra Sibari e Laos fosse quella che passava per le saline di Lungro e di Tavolara. «Gli antichi non estraevano il sale dal mare – spiega l’autore – e, pertanto, quello che versavano nell’acqua per la produzione della salamoia era sale minerale, come il salgemma di Lungro».
La rara prelibatezza del garum fu un’idea dei sibariti?
«Da Plinio il Vecchio apprendiamo anche che, mentre Calzomene, Pompei e Leptis erano apprezzate per il garum [una salsa di pesce, Nda] la città di Thurii era famosa per la muria, la salamoia, cioè acqua in cui si scioglieva il sale». E, inoltre, «qualche studioso del passato, come Elio Lampridio, sostiene addirittura che il gáron fosse stato inventato proprio dai Sibariti, mentre Giovanni Sole, docente di Storia delle Tradizioni presso l’Università della Calabria, ricorda che sulla tavola dei nobili Sibariti il gáron era simbolo di potenza e di ricchezza. Non a caso, infatti, poiché richiedeva una grande quantità di sale, esso era una merce rara e particolarmente costosa». La prosperità di Laos scaturita dalla salgemma trovò espressione anche nel conio di monete d’argento con il toro dalla testa umana, emblema di Sibari, e tale monetazione proseguì anche dopo la caduta della città ionica.
La frontiera tra Longobardi e Bizantini
«La valle del Lao ha svolto nei secoli il ruolo di terra di confine. Già in epoca classica divideva la terra dei Bretti da quella dei Lucani. Nell’Alto Medioevo, invece, ha rappresentato lungamente il confine tra il Ducato longobardo di Benevento e il Ducato (successivamente Thema) bizantino di Calabria»: la rievocazione di Russo si addentra così nei Secoli bui. Questa linea di confine che si dipana dallo Ionio al Tirreno è intuita, come sottolinea Russo, dallo studioso Venturino Panebianco: «Una via che dalla costa tirrenica risaliva prima il letto del fiume Lao, poi quello del fiume Argentino, fino alla sua sorgente, nei pressi di località Tavolara, da dove discendeva per raggiungere Lungro, le sue saline e la piana di Sibari». Tra le fortezze longobarde lungo la via del sale, l’autore, con legittima partecipazione sentimentale, si sofferma sul castello di Orsomarso: «I suoi muri appaiono come la naturale continuazione verso l’alto delle rocce che formano la falesia sulla quale sono edificati. Il castello svolse un ruolo centrale all’epoca dell’Eparchia monastica del Mercurion; intorno ad esso sorgevano una infinità di monasteri, divenuti famosi grazie ai grandi Padri del monachesimo italo-greco che vi abitarono».
Paesaggi immutabili racchiusi nelle fotografie di Rotondaro
Il fiume Lao incorniciato dalle fronde maestose dei boschi, il profilo della costa tirrenica dove il chiarore azzurro del mare si congiunge alla pallida linea dell’orizzonte, le strisce di colore grigio e arancione che illuminano le rocce e la macchia mediterranea di Capo Cirella, le rossastre sfumature autunnali che trasformano il Piano Tavolara in una vera e propria tavolozza cromatica, la spuma del fiume Argentino che ne avvolge le sponde come una nebbia setosa… Ecco alcune delle immagini catturate dallo sguardo fotografico di Pietro Rotondaro, che, in una specie di sospensione spaziale e temporale, sbocciano fra le pagine del volume e ne arricchiscono le parole con forme e colori intensamente evocativi.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XII, n. 123, marzo 2016)
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