«Un uomo freddo, di ghiaccio come i suoi occhi, come il suo corpo che brillava solo per pavoneggiarsi, ma che s’infrangeva di fronte ad altri che furbamente evitava. Un uomo che cercava di essere forte, ma in realtà era un debole, uno che cercava di essere intelligente e in realtà era un furbo. Uno che cercava di essere bello e in realtà era brutto come il vuoto, come l’ipocrisia e il male di vivere. Come la morte no, perché quando arriva, già tu non la vedi più. Un uomo senz’anima direi, forse». Il brano appena citato dimostra che gli orchi, purtroppo, non esistono solo nelle favole, e spesso nelle loro vene scorre lo stesso sangue delle vittime, prede della loro furia cieca. L’autrice del romanzo Non dire niente (Solfanelli, pp. 192, € 12,00), giunto ormai alla terza edizione, è Maria Barresi, nata a Reggio Calabria ma residente a Roma, giornalista Rai e redattrice del Tg1 per il programma Unomattina: con i suoi reportages ha vinto il Premio “Unione stampa cattolica italiana” e due edizioni del Premio “Ilaria Alpi”. Pur essendo questo il suo romanzo d’esordio, ha già al suo attivo diverse pubblicazioni tra cui: Il kordax. Dalla Grecia alla mafia (Laruffa, 1997), che fa risalire le origini della tarantella reggina a un antico ballo della Magna Grecia, e Il costume popolare reggino fra le musiche della festa e i colori del simbolico (Due Emme, 1993).
Cadenze da thriller per una discesa nell’inferno domestico
Una giovane supplente di liceo, Clara, conosce per caso un magistrato, Piero, impegnato nella lotta al narcotraffico. Si tratta di due personalità decisamente agli antipodi. Intrigante ed estroversa lei: «Aveva l’affascinante dote di essere al momento giusto grintosa e risoluta ma allo stesso tempo dolce e timida, rimanendo sempre se stessa sia in pubblico che in privato. Avendo poi i lineamenti del volto un po’ da bambina, cambiava molto a seconda di come si vestiva e si acconciava». Austero e pragmatico lui: «Un uomo molto concentrato sul suo lavoro, di cui era anche appassionato, ma non riusciva a trovare alternative. Anzi cercava di non averne per non legarsi a nient’altro che non fosse la sua professione». Clara confida a Piero di essere da tempo perseguitata da uno sconosciuto con telefonate mute e messaggi criptati, e finisce per invogliarlo a far luce su questo mistero. Un giorno poi la donna si presenta nell’ufficio del magistrato insieme a una sua allieva diciottenne, Nicoletta detta Nicla, la quale denuncia che, da anni, subisce una sistematica violenza sessuale da parte di suo padre. Lo stupratore di Nicla è ben lontano dal cliché prevedibile del bruto sporco e semianalfabeta: al contrario, è anche lui un docente, colto, elegante, persino raffinato. La maschera dietro cui cela le proprie pulsioni animalesche è plasmata con cura quasi maniacale: «Non era né un ubriacone né un mafioso né uno straccione né un riccone. Era una persona come altre, apparentemente distinta, un professore di scuola superiore che aveva pure un contratto all’università. Forse un po’ demodé, a volte usava la brillantina e si lucidava le scarpe».
Basta tacere sulle violenze in famiglia, no al silenzio e all’omertà!
Gli sforzi di Clara e Piero, che agendo in sinergia riescono a coinvolgere altre donne violentate, spezzano il loro silenzio, disperdono i miasmi del fatalismo e della rassegnazione e le spingono a denunciare i loro carnefici. La narrazione a più voci (Nicla, Clara, Piero) si rivela un abile espediente narrativo, che incalza, emoziona, coinvolge. «Testimonianza vivente che, in Calabria, il coraggio appartiene molto di più alle donne»: così l’autrice descrive il personaggio di Nicla in un’intervista rilasciata a Gian Paolo Grattarola. E, in effetti, la sua protagonista riesce a raccontare l’orrore di quanto ha subito con una specie di lucido distacco, come se proprio dalla sua adolescenza deturpata per sempre fosse prematuramente sbocciata la fiera consapevolezza di non piegarsi più a quell’infamia, di reagire con rabbiosa vitalità, per ritornare ad ogni costo alla vita: «Non volevo più vivere e rimasi inerme in quel momento, sognando di morire. Sentivo un peso sopra di me. Le sue ossa schiacciavano le mie e io ero diventata completamente piatta. I miei seni non esistevano più, fossilizzati dal suo petto. Cercai di non morire di dolore e mi immaginai un uomo. Farfugliavo come per lottare con lui al pari di una rissa su un ring e sognavo di vincere. Ovviamente perdevo perché ero già perdente in partenza». Una volta attraversata quella notte oscura, Nicla risorge e, sconfitto l’orco, sposa il ragazzo che ama: «Camminava spedita, sul tappeto di velluto rosso, mentre il fratello la frenava, accompagnandola con passi più lenti. Sembrava che non vedesse l’ora di dire addio al passato, consegnandosi a un nuovo presente».
Un racconto che amplifica gli echi della denuncia
Il romanzo di Maria Barresi possiede tutte le carte in regola per governare senza cadute di tono la delicata tematica che affronta. Fitti dialoghi che ampliano il respiro del testo combinandosi con suggestivi squarci sugli incantevoli paesaggi del crotonese, un’attenta indagine introspettiva sulle atroci sensazioni provate dalle vittime, che ne sviscera senza falsi pudori le sofferenze fisiche e morali («Entra in me come affonderebbe la forchetta in una bistecca di manzo», racconta Paola, anche lei abusata da un insegnante). E quegli istanti terribili che imprimono un marchio indelebile nella memoria, rievocati con la nitida crudezza di un reportage in una zona di guerra, eppure, nel medesimo momento, soffusi d’intensa partecipazione emotiva e di commossa indignazione. Il messaggio è scoccato come una freccia, colpisce in pieno il bersaglio, e mette sotto accusa non solo quell’arcaica mentalità patriarcale che considera lo stupro quasi una specie di atavico ius primae noctis appartenente al genitore di sesso maschile («Mentre mi piombava addosso, diceva che doveva essere il primo, il primo di tutti. Ma il primo a far che?»), ma anche la colpevole indifferenza delle istituzioni, che spesso intervengono troppo tardivamente contro i crimini sessuali perpetrati fra le mura domestiche.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XII, n. 122, febbraio 2016) |