Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La cultura, probabilmente
La bizzarra poetica di Luigi Di Ruscio
tra sperimentalismo linguistico
e intimi racconti della sua vita privata
Da Pellegrini, la raccolta del poeta-operaio italo-scandinavo,
animata dal prorompente e ardito flusso dei suoi pensieri
di Maria Saporito
Come abbia fatto la voce di uno scrittore autodidatta di Fermo, che aveva conseguito la sola licenza di quinta elementare, a rompere la tenacia dei ghiacci scandinavi è cosa che si potrà capire solo leggendo le pagine della sua opera testamentaria. Poeta-operaio trasferitosi ad Oslo agli inizi degli anni Cinquanta, dopo soli ventitré anni di permanenza in Italia, Luigi di Ruscio fu un’eruzione sorprendente di poesia e irriverenza, gettata sulla carta con l’allegria di chi sa giocare con le parole senza mai tradirne il valore.

Il poeta italiano e il marito norvegese
Il suo Zibaldone norvergico (Pellegrini editore, pp. 280, € 18,00) è un diario scomposto di pensieri e confessioni che accompagna il lettore in un mondo pulsante in cui le giornate da operaio, marito e padre si saldano con le ore trascorse, in isolamento, a scrivere. In un continuo transito dall’italiano, scelto per dare voce all’Io poetico, al norvegese, che serve invece a mantenere una connessione col paese ospitante.
È un flusso di coscienza inarrestabile quello a cui Di Ruscio dà forma nella sua opera, impreziosita da un impasto linguistico destinato a rimanere un unicum, dove la parola alta si combina con il refuso ostinatamente cercato, in un big bang di espressioni al limite del consentito. Nel suo “brodo comico”, ad esempio, il poeta si diverte ad inanellare una serie serrata di errori che culmina nella bestemmia: «Non errore ma orrore, non io ma Iddio, non parodia ma poesia […] non la processione del porco d’Iddio, ma del corpo d’Iddio».

Lontano dal bon ton, ma vicino all’Italia
Ciò che si coglie è un’arditezza spinta, che segna uno scarto incolmabile con il bon ton letterario dei suoi tempi. Ma anche con il modo di concepire e condurre la vita. «Ciò che al povero sottoscritto mette in sospetto – scrive Di Ruscio in una delle sue pagine più feroci – è le lingue diverse che adoperano tipi come Sanguineti e magari anche Zanzotto […] Hanno un Io adatto a tutto, si perde e si incasina appena si mettono a scrivere le poesie, si ritrova subito socializzato al massimo appena si alzano e vanno verso le quotidiane corporazioni». Infatti, «dovrebbe esserci una coerenza tra quello che si scrive o si dice e quello che uno fa – denuncia l’autore – non una poesia impegnata ma una esistenza impegnata».
Nel suo italiano personalissimo, Di Ruscio costruisce una scrittura dirompente con la quale ci pare abbia cercato non solo di esprimere ciò che il cuore e la mente gli hanno dettato, ma anche di mantenere saldo il legame con l’Italia lontana. Un paese che il poeta “di lu ferru” – come qualcuno lo definì riferendosi al suo lavoro in una fabbrica metallurgica che produceva chiodi – ha sempre seguito con affetto, registrandone passaggi e cambiamenti. A partire da quelli politici. A fargli da stella polare, la militanza nel Partito comunista, che lo ha spinto ad affondare fendenti sugli avversari meno stimati (tra tutti, il suo grottesco Perculoni) e a celebrare l’esempio dei “compagni” scomparsi.

Straniero da sempre
Ma è anche sulla sua condizione di straniero che Di Ruscio ha molto insistito, partendo da una percezione di alterità che lo ha sempre accompagnato: «Io personalmente – annota – sono partito molto prima di emigrare, ero già straniero, strano, non sapevo dove piazzarmi, per colpa della mia mania d’iscrivere le poesie ero guardato come oggetto strano, curioso e anche scandaloso». E Di Ruscio straniero lo è sempre stato, in Norvegia come in Italia, senza vittimismo, anzi, sapendo riscattare la marginalità in cui molti lo avevano confinato, con l’ebbrezza della sua scrittura incontinente per constatare, non senza una certa rassegnazione, che quella dello straniero è una condizione esistenziale a cui nessuno può sfuggire perché «tutti hanno i propri ebrei e gli ebrei hanno i palestinesi».

Versi come coriandoli
Non ci sono insegnamenti, nelle pagine magmatiche di questo Zibaldone, ma solo annotazioni a cuore e mente aperti. Ritratti intimi e dissacranti consegnati con la generosità dell’artista che nulla vuole tenere per sé. Attacchi graffianti al mondo clericale e a Dio – «Siamo nelle mani di uno strozzino onnipotente che ci farà pagare ogni gioia concessa con interessi spaventosi» – e istantanee di vita familiare in cui la figura della moglie troneggia come quella di una valchiria “esplosiva”. Fino all’autoritratto più sincero: «Il sottoscritto poeta è tanto delinquente che se la ride di tutto il nostro male» ammette Di Ruscio, che, con affetto paterno, definisce le proprie composizioni «poesie blasferiche e tutte sgraffignate», per poi concludere: «Non scoraggiarti poeta tutto sputato, i tuoi versi saranno come coriandoli sparsi in un momento di gioia, poi tutto finisce». L’epitaffio ideale per onorare la memoria di una voce schietta, che ha vinto latitudini e distanze geografiche con il suo canto utopistico e sgangherato.

Maria Saporito

(direfarescrivere, anno XI, n. 119, novembre 2015)
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