Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La cultura, probabilmente
Dalla Controriforma al secolo dei Lumi:
duecento anni di storia dell’arte
e il fascino barocco di grandi capolavori
Da Ferrari, una seducente rassegna di tele sei/settecentesche
racconta il sacro e il profano ritratti nei pittori del Sud Italia
di Guglielmo Colombero
Nella pittura sacra calabrese del Seicento è individuabile «una subitanea e forse addirittura precoce adesione alle istanze della Riforma Cattolica, in quanto nell’Immacolata che Pietro Negroni aveva dipinto nel 1558 per la chiesa dei Cappuccini di Cosenza, quindi ben cinque anni prima della chiusura del Concilio di Trento, è stato possibile riscontrare, sia a livello iconografico che a livello pittorico, accenni a un clima pietistico, teso verso una sorta di interiorizzazione dell’immagine sacra, che, per molti versi, anticipa aspetti formali più propri della pittura della Controriforma di là a venire e a imporsi, negli ultimi due decenni del secolo, come linguaggio comune in tutto il Viceregno». Così si legge nell’Introduzione al volume Primi piani sul passato. Artisti calabresi del ʼ600 e ʼ700 (Ferrari, pp. 320, € 22,00), una perla della collana Arte & Territorio, diretta da Giorgio Leone. Storico dell’arte e direttore della Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Corsini, nonché docente di Storia dell’Arte presso l’Università della Calabria, è egli stesso autore del testo in esame, impreziosito, tra l’altro, da 64 illustrazioni in bianco e nero. Lo hanno affiancato in qualità di curatori Cecilia Perri (alla quale si deve anche il coordinamento redazionale), Alberto Pincitore e Antonella Salatino. Fondamentali anche le collaborazioni, per l’abbondante e pregevole apparato iconografico, dell’art director Francesca Londino e della progettista grafica Federica Mangiacasale. Grazie a questi apporti possiamo percorrere con gli occhi e con l’immaginazione una galleria sontuosa popolata da ventuno pittori calabresi vissuti nel XVII e nel XVIII secolo: da Francesco Cozza, morto nel 1682, fino ad Antonio Granata, scomparso quasi un secolo e mezzo dopo, nel 1818. Passando per fra’ Diego da Careri, Giovanni Battista Colimodio, Mattia Preti, fra’ Angelo da Pietrafitta, Eugenio Cerchiaro, Francesco Parise, Giuseppe Grimaldi, Tommaso Martini, Giuseppe Pascaletti, Giulio Rubino, Domenico Oranges, Nicola Lapiccola, Francesco Colelli, Cristoforo Santanna, Genesio Galtieri, Vincenzo Cannizzaro, Domenico De Lorenzo, Francesco Saverio Mergolo, Antonio Granata. Le oltre sessanta illustrazioni costituiscono l’indispensabile supporto visivo dei testi, elaborati con cura ammirevole da uno staff di studiosi dell’arte pittorica calabrese. Sarà compito di questa recensione dare il giusto rilievo, oltre che al contenuto del libro, alle immagini. E qui di seguito, per ovvie esigenze di sintesi, ci soffermiamo su due artisti particolarmente significativi della rassegna, per poi concludere offrendo al lettore qualche squisito assaggio contemplativo delle riproduzioni di opere in appendice al testo.

Francesco Cozza, geniale artefice di Madonne, Arcangeli e Satanassi
Nulla si sa della giovinezza di Francesco Cozza, se non che nasce a Stignano (un casale di Stilo) presumibilmente nel 1605, pochi anni prima della morte di Caravaggio. Le prime notizie sulla sua presenza a Roma, dove pare sia arrivato ventenne, risalgono al 1631; e nell’Urbe Cozza si spegnerà nel 1682 all’età, per l’epoca piuttosto rara, di settantasette anni. Allievo del Domenichino, Cozza viene descritto dal suo biografo settecentesco Lione Pascoli come una figura sobria, austera, quasi ascetica: «Piccolo di corpo, magro assai anche di faccia pallida, e smorta con larga fronte; occhi bianchi, naso un pochetto schiacciato, e capelli canuti, e stesi. Vestiva civilmente, e quasi sempre di nero, e stava sulla biancheria piucchè in altra cosa. Parlava bene, ma alquanto prolisso». Nei suoi soggetti sacri la luce «colpisce le figure facendo emergere l’anatomia dei corpi», e si coglie un’atmosfera «di sommessa commozione e tenerezza». Risale al 1640 il soggiorno di Cozza a Napoli, dove dipinge la Madonna del cucito, custodita nella Quadreria dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia, a Roma. Chi scrive ha sotto gli occhi una riproduzione a colori del dipinto, tratta dallo splendido volume Francesco Cozza, Gregorio e Mattia Preti, edito da Rubbettino, di cui Giorgio Leone è stato curatore assieme a Rossella Vodret. Uno degli elementi più inconsueti dell’opera è la posizione del Bambino: non in grembo alla Madonna, ma languidamente addormentato accanto a lei, nella sua nudità rosea come una buccia di pesca, con il braccio piegato dietro la testa. La veste di Maria è di un rosa pallido, drappeggiata in pieghe soffici, quasi spumose. Il velo che le copre quasi interamente la chioma bruna è di un giallo pallido, la trapunta che discende dalla spalla fino alle ginocchia di un celeste pastoso. I volti dei due angeli emergono da una penombra caravaggesca, che ne avvolge i contorni, e anche il S. Giovannino che veglia assieme a loro sul Bambino ha mezzo viso al buio: solo le guance paffute e di un colorito acceso, da contadinotto, sono ben visibili. La Madonna appare assorta nel cucire le fasce per il figlioletto, le palpebre sono socchiuse, sulle labbra color carminio affiora un sorriso soffuso di malinconica dolcezza. Nel 1650 Cozza realizza la sua opera più rinomata, la Madonna del Riscatto. Commissionato dai Padri Trinitari – meglio conosciuti come Padri del Riscatto, in quanto dediti alla missione di affrancare i cristiani dalla schiavitù dei corsari barbareschi –, il dipinto è oggi esposto nel Collegio nepomuceno di Roma. Osserva Cecilia Perri che nel dipinto «risaltano i tre colori specifici dell’abito dell’Ordine, bianco, verde e azzurro, che richiamano la simbologia trinitaria e sono evidenziati anche nella figura della Vergine. La meticolosità iconografica induce a pensare che Cozza seguì un preciso programma, suggerito, con molta probabilità, da uno dei padri appartenente all’ordine. La rigorosa composizione della tela su due piani, che demarca la divisione in piano terreno e piano celeste, unitamente alla scelta luminista, con la creazione di ombre nette, denotano una componente lanfranchiana e barocca». Ha le cadenze di un vero e proprio thriller il ritrovamento, nel 2008, di un altro capolavoro di Cozza, S. Michele arcangelo in lotta con il Demonio: si trovava a Roma, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine alle Tre Cannelle, sede dell’omonima arciconfraternita, ed era celato sotto un dipinto sacro assai più recente: la firma dell’autore è stata scovata tra il piede sinistro dell’arcangelo e la coda del demonio. Restaurata ed esposta al pubblico nel maggio 2013, l’opera, risalente al 1656, non fu mai citata dai biografi. Perché? È molto probabile che l’impressionante realismo anatomico del Lucifero nudo abbattuto dall’arcangelo, di netta impronta michelangiolesca, abbia scandalizzato i confratelli del Carmine, inducendoli a censurare il dipinto e ad occultarlo alla vista dei fedeli. Il talento di Cozza emerge da questa tela con la virulenza barocca di un vero e proprio shock visivo: alle sembianze algide dell’arcangelo, sfumate di un azzurro glaciale, l’artista contrappone la selvaggia vitalità di Lucifero, espressa dai muscoli tesi nella caduta, dalla tonalità ambrata e quasi sanguigna della carnagione, molto più terrena rispetto al pallore celestiale del giustiziere alato. E il pugno chiuso del Demonio, che svetta ancora minaccioso contro S. Michele, vuole rappresentare la persistenza del Male che, pur se debellato, non si arrende mai.

Mattia Preti, il gioco di luci e ombre e l’appropriazione dello spazio
Mattia Preti, detto il Cavalier calabrese, nasce nel 1613 da una famiglia della piccola nobiltà di Taverna, tre anni dopo la tragica morte del Caravaggio, del quale sarà uno dei più talentuosi emulatori. Ha come precettore don Marcello Anania, futuro vescovo di Sutri e Nepi, che infonde un’intensa religiosità nella sua vocazione artistica. Come Cozza, anche lui si traferisce a Roma poco più che ventenne. Nelle sue prime opere, spiega Antonella Salatino, l’artista tenta di «congiungere sperimentazioni cromatiche insieme ad un personale dinamismo compositivo, il tutto suggestionato dagli esiti del caravaggismo più europeo». Nel 1661, nel Palazzo Pamphilj a Valmontone, Preti decora la Stanza dell’Aria, e riesce a «realizzare il totale sfondamento dello spazio, in cui si muovono liberamente le rappresentazioni allegoriche, in una armonia di forme e di colori in un delicato gioco di luci e ombre. È questa una delle più alte invenzioni compositive dei soffitti seicenteschi, poiché costituisce la concretizzazione della variazione stilistica che muove dalla pittura barocca al grandioso tardobarocco». Oltre che a Roma, Preti soggiorna a Modena, a Venezia e a Napoli. Muore a La Valletta alla veneranda età di ottantasei anni.
Per inciso, tanto per ribadire con quanta passione Leone ci conduca alla riscoperta di uno straordinario artista come Preti, sempre nel volume Francesco Cozza, Gregorio e Mattia Preti, è riprodotto uno dei suoi capolavori maggiormente influenzato da echi caravaggeschi, il Martirio di S. Bartolomeo: il realismo della scena è a dir poco lancinante, con il corpo nudo del martire che emerge dall’oscurità teso nello spasmo di una sofferenza atroce, mentre due carnefici grotteschi procedono allo scorticamento mettendo a nudo muscoli e tendini scarlatti: uno di loro porta addirittura le lenti, e incide il collo del santo con la freddezza di un aguzzino professionista. Un dettaglio inconfondibilmente caravaggesco riguarda il secondo dei torturatori, che tiene il coltello insanguinato fra i denti mentre a mani nude scosta un lembo di pelle appena scuoiato.

Accensioni barocche, chiaroscuri, estasi di martiri e di santi
L’appendice iconografica di questo raffinato e imperdibile volume per chi ama la pittura seicentesca e settecentesca è densa di sfaccettature emozionanti. L’elenco non ha ovviamente la pretesa di essere completo, vuole semplicemente offrire al lettore un’antologia eloquente delle tante immagini preziose selezionate con cura da Leone e dalla sua équipe. L’Elevazione della Maddalena di Pedro Torres, con il seno turgido della penitente che irrompe fuori dalla veste, simbolo di ritrovata purezza e nel medesimo tempo sedimento ancora vivo della passata lussuria. La Madonna della Provvidenza di Gregorio Preti, dai lineamenti acerbi da adolescente, con in braccio un Bambino che quasi la soverchia con la sua pinguedine gioiosa. Lo straziato Crocifisso scolpito da fra’ Umile da Petralia, inondato da un rivolo di sangue scuro che ruscella dal costato trafitto. La S. Agata in carcere di Cesare Fracanzano, toccante personificazione dell’innocenza violata, con le palpebre socchiuse e, con una specie di muto presentimento, la mano premuta contro il seno destinato a subire le atroci sevizie dei carnefici. Il S. Girolamo di Hendrick Van Somer (pittore olandese presente nella Certosa di Serra San Bruno), scarno, rugoso, impietrito nella sua ascetica solitudine. Il S. Dionigi Areopagita, infine, di Corrado Giaquinto, quasi un’incredibile anticipazione del surrealismo alla Magritte, con il santo che regge e contempla la propria testa staccata dal corpo.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XI, n. 113, maggio 2015)
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