Il Canzoniere di Fabrizio De Andrè, fin dagli esordi della sua produzione, ossia dal lontano 1961, si è colorato di vite, di infinite storie e di un mondo che brulica quasi sempre di diseredati, di malviventi, di prostitute che, come è noto, Faber frequentava presso il porto di Genova o nei vicoli della città vecchia presso via del Campo, laddove credeva di essere riuscito a scorgere delle figure umane reali, totalmente antitetiche a quelle che costellavano il suo mondo familiare e borghese, che già dalla prima giovinezza gli era parso arido e freddo. Era nei bassifondi che riusciva a cogliere la “vita”, ed è per questo motivo che il suo Canzoniere a tratti ha uno stile picaresco.
I personaggi deandreani possono essere passati in rassegna quasi random, senza tener conto delle date di composizione, ed esaminati a mo’ di zapping. Questo perché l’umanità è una costante riscontrabile in Marinella, in Tito il ladrone buono, così come in Prinçesa, rappresentando il fulcro di ogni vita raccontata. Se dovessimo suddividerli in categorie, potremmo scandirli in due grandi famiglie antitetiche: gli inetti e i virtuosi.
L’ignavia, inerzia vitale, condannata dall’autore come peccato di gioventù, ricorre frequentemente nei suoi versi, attraverso i «quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino» de La città vecchia, che incarnano lo stereotipo di chi ha speso i propri giorni semplicemente adattandosi alla consuetudine della massa, e ora, “avvelenati” dalle ingordigie e dagli impulsi che essi stessi forse sono stati capaci di frenare, hanno come “piacere” ultimo lo stratracannare, vomitando blasfemie contro i politici, le donne e il mutare delle stagioni.
La virtù invece è da ricercare in chi, anche a costo della vita, è riuscito ad anteporre le proprie ideologie alle condanne sociali: un esempio calzante potrebbe essere il blasfemo di Non al denaro non all’amore né al cielo, album registrato nel 1971. Il blasfemo rappresenta uno dei prototipi dell’uomo virtuoso, capace di non abiurare il proprio credo anche se «due guardie bigotte» gli «cercarono l’anima a forza di botte». L’opera appena menzionata è liberamente ispirata all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che De Andrè musicò dopo aver consultato la storica traduttrice dell’autore statunitense, Fernanda Pivano. Effettuata una cernita delle lapidi che popolano il piccolo villaggio immaginario di Masters, Faber scelse le storie di personaggi tra loro diametralmente opposti: gli invidiosi e i virtuosi. Nella categoria prediletta è possibile scorgere anche una sorta di augurio autobiografico, infatti Il suonatore Jones, testo che chiude la raccolta, è il tipo di personaggio che l’autore ha dichiarato di sentire più vicino a se stesso. Nel verso di chiusura, in cui si racconta del trapasso di questo vagabondo di strada che si guadagnava da vivere semplicemente con la melodia del suo flauto, si esegue un bilancio, nel quale il musicista si rende conto di aver accumulato «ricordi tanti e nemmeno un rimpianto».
Le donne: malinconiche, tristi o innamorate
In Volta la carta i personaggi di Angiolina e Madamadorè sono esempi dicotomici di vite vissute all’insegna della virtù e del rimorso.
Il testo, inserito nell’album Rimini (1978), realizzato in collaborazione con Massimo Bubola, è una filastrocca dal ritmo andante, in cui compaiono diverse figure, descritte brevemente, in maniera curiosa e particolareggiata. Proprio nel momento in cui l’ascoltatore-lettore del testo cerca di mettere a fuoco il tema del personaggio in questione, il cantautore genovese «volta la carta», passando a quella successiva.
Le carte sono quelle dei tarocchi, con cui l’autore dichiara di aver trovato dimestichezza in gioventù, quando frequentava il porto di Genova.
La canzone parte presentando la carta della contadina, la «donna che semina il grano», poi ritroviamo «il villano che zappa la terra», quindi «un bambino che sale un cancello e ruba ciliegie e piume d’uccello» e a seguire altri personaggi.
Unico volto che ritorna di consueto è Angiolina, fanciulla innamorata di un carabiniere, descritta per tutta la filastrocca come l’innamorata speranzosa e allo stesso tempo malinconica. La ritroviamo mentre «alle sei di mattina si intreccia i capelli con foglie d’ortica», poi «seduta in cucina che piange che mangia insalata di more», mentre un ragazzo mette sul grammofono una melodia d’amore che le ricorda il suo, rendendola nostalgica e dubbiosa.
Nella strofa conclusiva è descritta mentre è intenta a ritagliare giornali e a vestirsi da sposa. Quello di Angiolina è un personaggio positivo, infatti non a caso la filastrocca termina con il verso: «canta vittoria, chiama i ricordi col loro nome», ovvero invoca il suo amato che sta per sposare. Il loro lieto fine è evocato dall’espressione «volta la carta e finisce in gloria». Nel pieno della sua giovinezza, anche se non ci è concesso sapere come sia stata in grado di conquistare l’amore del carabiniere, questa fanciulla è riuscita nel suo intento.
La penultima strofa, differentemente dai molti nonsenses, presenta la storia di Madamadorè. Qui l’autore in poche battute sembra racchiudere un destino opposto rispetto a quello di Angiolina, presentandoci un personaggio inetto:
Madamadorè ha perso sei figlie
tra i bar del porto
e le sue meraviglie
Madamadorè se puzza di gatto
volta la carta e paga il riscatto
paga il riscatto
con le borse degli occhi
piene di foto di sogni interrotti.
Distratta, a tal punto da aver perso sei figlie, Madamadorè sembra appartenere alla cerchia degli outcasts, di queste “anime salve” di bassifondi e zone di mare. La sua storia inizialmente evoca anche la figura della donna presente nel testo di Amico fragile (in Volume 8, 1975) che dichiara: «Lo sa che io ho perduto due figli / Signora lei è una donna piuttosto distratta».
La carta di Madamadorè, in brevi battute ma concise, ci lascia intendere dalle «borse degli occhi» la sua passata gioventù. È come se Faber la inserisse in una qualche penombra, intenta ad accarezzare il suo unico amico, il gatto (deducibile dal verso «se puzza di gatto»), mentre passa in rassegna tutti i rimpianti della sua vita, concepiti come «foto di sogni interrotti», ossia occasioni mancate per inerzia oppure per mancanza di coraggio. Il riscatto da pagare è alto: il trascorrere del tempo, che l’ha condotta, senza che lei se ne rendesse realmente conto, alla vecchiaia.
L’immagine di questa donna solitaria riecheggia anche in quella della protagonista di Valzer per un amore (in Canzoni, 1974), testo adattato al Valzer campestre di Marinuzzi, in cui una figura femminile, ormai «carica d’anni e di castità / tra i ricordi e le illusioni», si meraviglierà «che qualcuno abbia lodato / le bellezze che allor più non avrai / e che avesti nel tempo passato». Ma ormai, continua il cantautore, «non ti servirà il ricordo» se non per rimpiangere quell’amore a cui non ebbe il coraggio di abbandonarsi. In maniera sentenziosa il testo evoca la caducità del tempo e quel carpe diem che non tutti hanno il coraggio di afferrare:
Vola il tempo lo sai che vola e va,
forse non ce ne accorgiamo
ma più del tempo che non ha età
siamo noi che ce ne andiamo.
Questa descrizione sembra prestarsi a ciò che nel frangente di un attimo, prima che la carta torni a voltarsi, possa passare per la mente di Madamadorè.
Lo stereotipo della donna ormai in là con gli anni, infelice e “carica” di rimpianti, si focalizza brevemente anche in Bocca di rosa (in Volume I, 1968), dove «una vecchia mai stata moglie / senza mai figli, senza più voglie» cerca di vendicare la sua inerzia e la sua “primavera” ormai passata, scagliando la propria rabbia contro Bocca di rosa, che al contrario sembra vivere al massimo la sua giovinezza, a tal punto da essere collocata, durante la processione, fra la statua della Vergine e il parroco, ossia tra «l’amor sacro e l’amor profano».
I suicidi: storie di personaggi revisionati in chiave dantesca
Il tema della morte è sempre stato argomentato sotto varie sfaccettature nell’opera di De Andrè. Marinella è una canzone attraverso la quale l’autore, come ha dichiarato, ha cercato di “addolcire” la morte, dal momento che lo spunto per il testo lo ebbe leggendo un articolo di cronaca che riportava la notizia del ritrovamento del cadavere di una prostituta, annegata in circostanze poco chiare.
L’aver vissuto la dipartita di ben due amici-colleghi, Luigi Tenco (1967) ed il poeta Riccardo Mannerini (1980), ha spinto il cantautore genovese ad affrontare nei suoi testi anche il tema del suicidio.
E proprio coloro che hanno messo fine alla propria esistenza volontariamente divengono l’emblema dei coraggiosi. Nel suo Canzoniere, infatti, chi ha rinunciato alla vita non è da considerare come un perdente, un inetto, una persona incapace di adattarsi e di trovare il suo ruolo nella società a causa di ciò che impone la massa, tutt’altro, tanto che dedica al tema svariati versi, composti già agli esordi della sua produzione.
Il primo testo a trattare il tema del suicidio è La Ballata del Michè. Qui un galeotto decide di impiccarsi piuttosto che scontare una pena di vent’anni e stare lontano dalla sua amata Marì, che stava per essergli “rubata” da un altro pretendente. Il triangolo amoroso ha come epilogo l’uccisione del terzo incomodo da parte di Michè e di conseguenza la sua condanna.
Il rifiuto della vita, secondo le prospettive e aspettative delle anime cantate nel suo Canzoniere, andrebbe considerato non come una decisione dettata dall’incapacità soggettiva di poter condurre un’esistenza secondo le proprie esigenze e il proprio credo, ma come una forma di ribellione che ha come scopo la libertà. Analizzando La Ballata del Michè è possibile comprendere le ragioni che inducono il protagonista a togliersi la vita: una disperazione nata dal fatto che la sua condanna ventennale gli avrebbe impedito di condurre un’esistenza all’insegna dei suoi ideali, costringendolo ad un’inerzia e ad un’apatia forzata, di conseguenza ad un’inettitudine diametralmente opposta al suo status vivendi. Il gesto dell’impiccagione in questo caso è molto emblematico, dal momento che rappresenta metaforicamente il cappio che lega la morte alla libertà ritrovata, infatti scrive: «Però adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir».
Lo stesso disperato gesto di ricerca di libertà “così cara” è ripreso nel testo Preghiera in gennaio, scritto dopo il suicidio dell’amico Luigi Tenco, avvenuto durante il Festival di Sanremo del 1967, nella notte successiva alla sua eliminazione dalla gara, a cui si era presentato in coppia con Dalida con il brano Ciao amore ciao, divenuto popolarissimo dopo la tragica vicenda. Lui stesso aveva lasciato scritto di aver compiuto il gesto per protesta. Il suicidio di Tenco viene raccontato come una sorta di sfida, come un monito per i “Signori benpensanti” che non erano stati capaci di comprendere e di accogliere la complessità del male di vivere dell’uomo moderno, componente basilare dei testi di De Andrè, (forse troppo) all’avanguardia e innovativi per un’epoca in cui la musica italiana favoriva arie melodiose e spensierate.
Tenco letterariamente è quasi da assimilare al Catone del Purgatorio dantesco, dal momento che morì per oltraggio, mostrando il suo coraggio “al cielo ed alla terra”, la sua ostinazione, il suo sacrificio in nome della libertà, che allo stesso Catone «fu sì cara» a tal punto da indurlo a rinunciare alla vita stessa.
Alessandra Pappaterra
Bibiografia
Matteo Borsani, Luca Maciacchini, Anima Salva. Le canzoni di Fabrizio De Andrè, Tre Lune edizioni, Mantova 1999.
Claudio Cosi, Federica Ivaldi, Fabrizio De Andrè. Cantastorie fra parole e musica, Carocci, Milano 2012.
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Romano Giuffrida, Bruno Bigoni (a cura di), Fabrizio De Andrè. Accordi eretici, Introduzione di Mario Luzi, Euresis edizioni, Milano 1997.
Roberto Iovino, Fabrizio De Andrè. L’ultimo trovatore, Fratelli Frilli editori, Genova 2009.
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Susanna Sanna, Fabrizio De Andrè. Storie, memorie ed echi letterari, Effepi libri, Monte Porzio Catone 2009.
Claudio Sassi, Walter Pistarini, De Andrè talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, Coniglio editore, Roma 2008.
Elena Valdini, Volammo davvero. Un dialogo interrotto, Postfazione di Dario Fo, Fabrizio De Andrè onlus, Bur, Milano 2007.
Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De Andrè, Feltrinelli, Milano 2009.
(direfarescrivere, anno XI, n. 111, marzo 2015)
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