Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La cultura, probabilmente
Pasolini: Abel Ferrara racconta
le ultime intense, tormentate ore di vita
del grande regista e scrittore friulano
Il nuovo film del discusso cineasta italo-americano descrive
il dolore e l’angoscia che dilaniarono l’autore di Salò
di Guglielmo Colombero
È il giorno di Ognissanti del 1975. Il mondo occidentale è ancora spartito in due dalla Cortina di ferro, ma l’Impero sovietico, anche se governato da un grottesco “zar rosso” tabagista e ubriacone chiamato Leonid Breznev, è in fase di espansione, grazie al trionfo delle versioni asiatiche e africane dell’Armata rossa in Vietnam, Laos, Etiopia, Madagascar, Angola e Mozambico. Sotto lo sguardo silenzioso e distratto degli intellettuali di sinistra europei, e con la complicità della Cina tardo-maoista, in Cambogia i Khmer rossi, guidati da un pazzo fanatico di nome Saloth Sar, noto come Pol Pot, fresco di studi alla Sorbona, stanno sterminando due milioni dei loro connazionali. Negli Stati Uniti d’America, scappati con la coda fra le gambe da Saigon e da Phnom Penh, al posto del criminale Richard Nixon, travolto dal Watergate, c’è uno scialbo e incolore presidente di nome Gerald Ford, mentre milioni di mani nere stanno per spingere verso la Casa Bianca il sorridente Jimmy Carter, ex magnate delle noccioline. In Europa, dopo la Grecia e il Portogallo, anche la Spagna sta per uscire dal letargo della dittatura: è agli sgoccioli la spaventosa agonia del Caudillo Francisco Franco. In Italia, dove si è ormai decomposta l’esperienza politica del centrosinistra, Aldo Moro, al quale restano due anni e mezzo di vita, guida da un anno un governo pigramente conservatore, formato da Dc e Pri. Il Belpaese vive sotto l’incubo delle bombe fasciste, che in piazza della Loggia e sull’Italicus hanno insanguinato la primavera e l’estate del 1974, mentre il terrorismo di segno opposto delle nascenti Brigate Rosse sta oliando i kalashnikov per “colpire al cuore lo stato imperialista delle multinazionali”. Pier Paolo Pasolini, firmatario di un memorabile j’accuse in cui, giusto un anno prima, dalle colonne del Corriere della sera, aveva puntato il dito contro la Democrazia cristiana, accusando i suoi capi di essere i mandanti occulti delle stragi, si trova a Parigi, dove sta preparando l’anteprima della sua ultima, discussa opera cinematografica, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il più maledetto tra tutti i film maledetti, destinato a uscire sugli schermi postumo, tre settimane dopo la tragica fine del suo autore, subendo un immediato, ineluttabile sequestro da parte della magistratura. Appare uno spezzone di Salò: una ragazza nuda, bionda, dalla carnagione pallida, è condotta in lacrime di fronte ai quattro carnefici che abuseranno di lei nella maison sadiana che funge da sfondo dei loro rituali perversi. «Gli attori dei miei film non possono non essere masochisti», mormora Pasolini mentre dirige il montaggio della pellicola. Ha 53 anni, e appare piuttosto stanco.

Le profezie di un eretico
Quelle appena descritte sono le immagini scelte da Abel Ferrara per l’incipit del film da lui dedicato a Pier Paolo Pasolini, appena uscito sui nostri schermi, quasi in sordina, come spesso accade alle opere scomode e non del tutto gradite da un pubblico che al cinema vorrebbe solo svagarsi, e pensare il meno possibile. Abel Ferrara, nato 63 anni fa nel Bronx da padre italiano e madre irlandese, ha firmato, dal 1979 ad oggi, una ventina di lungometraggi, più una dozzina fra fiction televisive, videoclip, cortometraggi e documentari. Quando, il 2 novembre 1975, il cadavere sfigurato di Pasolini, scambiato per un mucchio di spazzatura, fu rinvenuto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, Abel era un ventiquattrenne aspirante regista, che aveva maturato la propria vocazione proprio studiando attentamente la filmografia pasoliniana, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello contenutistico. Avrebbe esordito l’anno dopo, sotto pseudonimo, girando una commedia pornografica dal titolo inequivocabile, 9 Lives of a Wet Pussy. Segue The Driller Killer, uno splatter virulento, in cui un pittore impazzito trapana a morte alcuni barboni. Ma è il terzo film, Ms. 45 (distribuito in Italia come L’angelo della vendetta), che nel 1981 procura al giovane regista italo-americano una certa notorietà: cult movie del filone rape and revenge, suscita scalpore per la sequenza in cui la protagonista Zoë Lund, travestita da suora, irrompe nel bel mezzo di un party e semina la morte fra gli invitati (sarà lei, allora diciassettenne, a scrivere dieci anni dopo il copione del Cattivo tenente).
Per i film successivi Ferrara dispone di budget assai più cospicui, e si avvale di attori di grido: Tom Berenger e Melanie Griffith nel thriller Fear City (Paura su Manhattan, 1984), Harvey Keitel in quello che è considerato da gran parte della critica il suo capolavoro, Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992), ancora Keitel accanto a Madonna nella black comedy intitolata Snake Eyes (Occhi di serpente, 1993), Forest Whitaker nel delirante remake del cult movie di fantascienza Body Snatchers (Ultracorpi, l’invasione continua), Christopher Walken nell’elegante e inconsueto horror The Addiction (1995) e nel noir The Funeral (Fratelli, 1996) a fianco di Chris Penn e Isabella Rossellini, come pure in New Rose Hotel (1998) assieme a Willem Dafoe e Asia Argento, Juliette Binoche in Mary (2005), Matthew Modine e Claudia Schiffer in Blackout (1997), ancora la coppia Dafoe-Argento in Go Go Tales (2007), di nuovo Dafoe nell’apocalyptic drama dal titolo 4:44 Last Day on Earth (2011).
La voce profetica di Pasolini riemerge dall’oltretomba in questa ultima provocazione artistica di Abel Ferrara, guerrigliero della macchina da presa che, incurante di polemiche e stroncature, ha sempre ammantato di squisita eleganza formale le più brutali trasgressioni visive, in perenne bilico fra redenzione e peccato, violenza e tenerezza, inferno e paradiso. Una voce perduta, dunque, quella del profeta da massacrare, dell’eretico da bruciare, che Abel Ferrara scinde e amplifica negli echi dolorosi e allucinati di una vera e propria “cronaca di una morte annunciata”. La cornice romana è disturbante, e si ricollega idealmente al nichilismo edonistico dell’Urbe tratteggiata da Paolo Sorrentino in La grande bellezza, ne rappresenta nel medesimo tempo il prologo e il ribaltamento. Un cromatismo sporco, opaco e malato trasuda i germi di un degrado non solo sociale, ma anche culturale. Questa “corte dei miracoli” capitolina appare stuprata quotidianamente da un Potere protervo quanto distante, che nei salotti buoni pianifica la strategia della tensione fra tartine al caviale e coppe di spumante. L’anelito autodistruttivo che pervadeva il Nazareno ne L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese rivive nello sguardo avido e febbricitante di Willem Dafoe, alla ricerca degli oscuri oggetti del suo desiderio in squallidi bar di periferia, affollati da branchi di ragazzi allo sbando. Il Pasolini incarnato da Dafoe si artiglia sovente la fronte, quasi a voler intrappolare la pulsione di morte che lo pervade senza sosta. Il risveglio dopo il ritorno da Parigi è già impregnato di violenza e di minaccia: gli omicidi che scorrono sulle pagine del Corriere della sera, l’ultima intervista concessa a Furio Colombo che implode nella frase fatidica: «L’inferno sta salendo. Siamo tutti in pericolo».

Benvenuti a Sodoma
In un complesso e affascinante gioco di incastri, Abel Ferrara inocula un film immaginario dentro il film che sta girando: raccoglie così idealmente il testimone scivolato via dalle mani inerti di Pasolini assassinato, inventa alcune sequenze del soggetto solo pensato e mai realizzato dopo Salò, dal titolo già apertamente provocatorio, Porno-Teo-Kolossal. E, contestualmente, visualizza alcuni brani del romanzo incompiuto, Petrolio, che Pasolini stava elaborando da alcuni mesi. Sul ticchettio della sua Olivetti 22, unico esile argine di fronte all’orrore ormai tracimante, si soffermano alcuni brevi e intensi piani sequenza, vibranti di angoscia e di furore creativo. Un film mai girato e i frammenti di un romanzo mai scritto: Abel Ferrara s’innesta su questi due monconi e ne ricava una suggestiva parabola in parallelo contrasto con il freddo rigore cronachistico con cui scandisce le ultime ore di vita di Pasolini. Negli spezzoni immaginari di Porno-Teo-Kolossal Ninetto Davoli reincarna il Totò di Uccellacci e uccellini, non a caso accompagnato da Riccardo Scamarcio, a sua volta trasformato nel candido Ninetto di quel film. Davoli e Scamarcio, reiterando il viaggio simbolico del film appena citato, approdano nell’utopica città di Sodoma, «dove tutto è tollerato», accolti da due ammiccanti poliziotti e da un viscido tassista ruffiano. Assistono ad un’orgia scatenata in cui coppie formate da un uomo gay e una donna lesbica si uniscono sessualmente, circondati e incoraggiati da cori da stadio. Una virata del regista nella parodia oscena, un guignol parossistico accuratamente calibrato in ogni singola inquadratura: il che non sarà sicuramente sfuggito ai cinephiles estimatori di Pasolini e del suo emulo italo-americano. Del medesimo tenore risultano altre visualizzazioni estratte dalle schegge letterarie di Petrolio: la sciagura aerea nel deserto rosa sudanese, con il macabro e derisorio primo piano dello scheletro della hostess che aveva appena accettato l’avance del viaggiatore altolocato (Andrea Bosca), e la frenetica immersione del personaggio di Carlo (Roberto Zibetti) nella compulsiva performance sessuale con i borgatari della Casilina, scandita con gelida ritualità.

Stabat Mater
L’ottantenne Adriana Asti, nel ruolo della madre di Pasolini, è semplicemente superba: il suo conclusivo ululato di dolore continua a riecheggiare nella mente anche dopo lo scorrere dei titoli di coda. La “cognizione del dolore” che Abel Ferrara aveva saputo addensare in altre sue opere (specialmente in alcuni scorci lancinanti de Il cattivo tenente) appare qui come trattenuta, compressa, insostenibile. E restano impresse anche altre figure di contorno, emblematiche del contesto familiare di Pasolini: Giada Colagrande è la solare cugina del poeta, Maria de Medeiros una zingaresca e ironica Laura Betti (poi impietrita in una maschera sofferente quando assume il ruolo di messaggera di morte), Francesco Siciliano un’impeccabile personificazione del giornalista Furio Colombo. La maestria di Abel Ferrara fermenta nella rifinitura geometrica delle inquadrature, nei brevi piani sequenza dove ogni dettaglio è significante, nel commento musicale talmente aderente alle immagini da risultare quasi impercettibile (Maria Callas, la Medea pasoliniana, che intride l’epilogo funereo sulle note di Rossini). La terribile sequenza del pestaggio omicida sembra contemplata dall’alto da una crudele divinità indifferente: il tonfo sordo dei calci devastanti, i gemiti soffocati, gli insulti omofobici che, purtroppo, risuonano ancora oggi negli stadi, nei salotti e nelle periferie urbane. In definitiva, il film di Abel Ferrara emana «luce che filtra attraverso la nebbia», metafora utilizzata dall’intervistatore Furio Colombo per definire il linguaggio talvolta oscuramente profetico con cui Pier Paolo Pasolini tentava di diagnosticare il cancro maligno che da alcuni decenni erode lentamente questa nostra società malata, sempre meno opulenta e sempre più spettrale. Forse l’inferno a cui lui accennava poche ore prima di morire già lambisce la soglia di casa nostra.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno X, n. 107, novembre 2014)
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