Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La cultura, probabilmente
Un’analisi accurata delle criticità
e delle rigidità della scuola italiana
incapace di stare al passo con i tempi
Dall’esperienza diretta di un docente, un saggio per capire
i problemi dell’istituzione scolastica. Da Infinito edizioni
di Emanuela Rizzuto
«Questa scuola e questa società […] sono costruite sul timore d’immaginare una situazione radicalmente nuova. Ma poiché “i popoli come gli individui, se non vanno innanzi o non si sforzano di andare innanzi, vanno indietro, e fermi e tranquilli non possono restare senza corrompersi” (Benedetto Croce), rischiamo il disfacimento dell’organizzazione scolastica e forse della società. Gli insegnanti di oggi sono ancora portatori d’una “cultura avanzata”. Però non nel senso che procedono davanti a tutti promuovendo il nuovo. Piuttosto rappresentano quanto è “avanzato” di quella cultura che la società non è riuscita a utilizzare perché prodotta in quantità eccessiva e di cattiva qualità, tanto che oggi non si sa più dove collocare».
Così scrive Corrado Poli, giornalista-opinionista oltre che autore, nel suo ultimo saggio Rivoluzione a scuola. Come rendere felici e migliori insegnanti e allievi (Infinito edizioni, pp. 160, € 13,00), ove denuncia in modo assai critico e spregiudicato le carenze della scuola italiana contemporanea, presentata come l’antitesi del modello scolastico vincente, per la sua incapacità di stare al passo con i tempi e di adempiere alla sua funzione primaria, che è quella educativa.
Ne segue una vera e propria opera di demolizione e, al contempo, di ricostruzione ideale della stessa, che offre interessanti spunti di riflessione da cui ripartire per proporre nuovi e alternativi modelli didattici.
Il saggio è in parte autobiografico, in quanto nasce dal confronto tra realtà scolastiche completamente diverse tra loro e vissute in prima persona dall’autore, il quale, forte della sua esperienza quasi trentennale maturata all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove ha svolto attività di ricerca, consulenza e docenza universitaria, sente intensamente il bisogno di tornare ad insegnare in Italia, dove viene assunto come precario sulla base dei precedenti titoli ivi conseguiti e assegnato ad una scuola media superiore del Nord-Est, in una città cui viene dato il nome di Trevenza (presumibilmente Treviso).
Tale esigenza di tornare in Italia nasce dalla forte volontà dell’autore/docente di trasmettere ai suoi futuri discenti l’entusiasmo e l’esperienza maturate all’estero, ma, da subito, lo stesso si scontrerà con una realtà completamente diversa da quella che aveva lasciato, in Italia da studente e all’estero da docente.
Da qui l’idea di scrivere e pubblicare un saggio sulla scuola.
Sin dalle prime pagine traspare lo spirito critico e pungente dell’autore, che, nella sua “opera di demolizione” del sistema scolastico italiano attuale, non risparmia nessuno: dai docenti ai dirigenti, dai sindacati alla “retorica vuota” dell’ideologia di destra e di sinistra, dall’architettura alla posizione geografica delle scuole contemporanee e via discorrendo. Ne risulta un’analisi interessante e singolare dell’attuale panorama scolastico italiano.
Provando a sintetizzarne i concetti più importanti, tra le espressioni positive più ricorrenti nel testo troviamo senz’altro “creatività” e “pensare creativamente”, nel senso di provare ad immaginare una scuola diversa, puntando l’attenzione non tanto sul “cosa” insegnare, ma sul “come” farlo e soprattutto su “chi” insegna e a “chi”.
L’allievo – sostiene l’autore – non deve essere visto come materia passiva, ma come parte attiva e integrante della scuola, la quale deve essere concepita in funzione e al servizio dello studente e non come luogo dove si impartiscono aride regole al solo scopo di mantenerne il controllo. L’istituto scolastico, infatti, deve essere un luogo di apprendimento e di valorizzazione della “creatività” e della “diversità”, intese come il contrario di omologazione, capace di mettere in risalto l’individualità del giovane/allievo e le sue peculiarità e potenzialità.
Tra gli elementi negativi si segnala “la retorica vuota della sinistra”, che «usa vecchi slogan quali il diritto allo studio, l’istruzione di massa come base della libertà, ecc…», nonché “la retorica vuota di destra”, che «parla di meritocrazia, di efficienza, di competitività del lavoro, senza saper proporre scenari e contenuti adeguati ai tempi».
Sostiene l’autore che «chiunque siano gli insegnanti non si può immaginare di cambiarli dall’oggi al domani. Da quello che sono bisogna partire per cambiare la scuola» e ciò si può fare solo tentando di modificare le relazioni tra le persone e, di conseguenza, i ruoli che esse svolgono.
Ciò che colpisce da subito è la facilità con cui l’autore sfata luoghi comuni e stigmatizza principi tuttora ritenuti capisaldi della scuola e difesi a spada tratta – almeno a parole – dai sindacati.
Corrado Poli, in definitiva, sostiene, più che il diritto al lavoro, l’importanza di avere insegnanti “felici” e motivati ad insegnare e, dunque, l’importanza di coltivarne la vocazione. Egli, infatti, punta il dito contro il sistema attuale di reclutamento dei docenti che, equiparandoli ad altre categorie lavorative, privilegia ad esempio coloro i quali sono affetti da problemi personali e familiari senza tenere conto della loro reale vocazione e del reale bagaglio culturale e di esperienza che essi possiedono e che potrebbero trasmettere ai loro allievi, utilizzando un sistema di punteggio e di graduatorie del tutto inefficiente e anacronistico. Lo stesso diritto allo studio – sostiene l’autore – non ha alcun valore se il modello di scuola attuale non è in grado di offrire dei validi strumenti didattici.

L’architettura “violenta” della scuola e il sistema fordista
Interessante è il modo in cui l’autore si sofferma a descrivere l’architettura dei moderni plessi scolastici, che non esita a definire “violenta”, specie se la si confronta con quella delle scuole degli anni Cinquanta.
Si sottolinea la stretta relazione tra didattica e architettura, tra ambiente e apprendimento. La scuola moderna, nella sua fisicità, appare progettata nel dispregio della natura: completamente estranea e avulsa dal contesto urbano e sociale, per volontà stessa dei suoi costruttori e di chi l’ha ideata. Vi è una netta separazione tra il dentro e il fuori, proprio come negli istituti di pena e nelle fabbriche inquinanti, dove tuttavia (in queste ultime) vige paradossalmente un rispetto maggiore delle norme sulla sicurezza…
Le scuole di oggi, a detta dell’autore, ricordano fabbriche fordiste (espressione che ricorre spesso nel libro) dal punto di vista architettonico, tutte organizzazione e spersonalizzazione: cattedrali nel deserto, con conseguente obbligo di usare i mezzi per raggiungerle, generando traffico, con dispendio di tempo e di salute, tanto per gli allievi quanto per gli insegnanti e il personale tutto. Tali scuole, progettate come fabbriche e caserme, si ispirano all’organizzazione dell’esercito, dove vengono privilegiate non la creatività e la diversità, ma l’omologazione e l’uniformità, e dove vengono impartite rigide regole di comportamento al solo e unico scopo di operare il controllo su una massa indisciplinata di adolescenti.
Scrive Poli: «L’alleanza sciagurata tra insegnanti e genitori nel controllo dei giovani è quanto di più perverso esista dal punto di vista pedagogico: la scuola dovrebbe consentire ai giovani di emanciparsi dai genitori pur in una situazione protetta e insegnare loro ad autogestirsi. Invece avviene che, per la pigrizia e le paure di tutti, si procrastinino il comportamento infantile dei giovani e quello iperprotettivo dei genitori».
E ancora: «L’architettura della scuola è la prima forma di diseducazione su cui si innescano le altre».
Riguardo al fatto che vi sia una stretta relazione tra architettura della scuola e apprendimento e all’affermazione che le scuole italiane di oggi siano per molti versi simili a fabbriche fordiste e a caserme o istituti di pena, funzionanti come catene di montaggio, dove si è costretti a stare raggruppati in classi anguste per ore e dove non è dato scegliersi né i compagni, né le materie da studiare, né i docenti, vi è una vasta letteratura, suffragata da esempi che dimostrano l’importanza di un ambiente scolastico a misura dell’allievo. Basti pensare al metodo montessoriano, basato sul concetto di “ambiente preparato”, in riferimento al contesto educativo della scuola media e dell’adolescenza. Fortunatamente numerose sono le scuole, europee e non, progettate e costruite secondo modelli innovativi, che pongono al centro l’individuo e non concepite in funzione della massa: ne sono un esempio il modello finlandese, ma anche le nuove architetture educative che troviamo in Australia, Bangladesh, Giappone, Islanda, Regno Unito, Svizzera, e persino in Italia, dove, di recente, all’Istituto superiore “Enrico Fermi” di Mantova sono stati inaugurati alcuni nuovi spazi di studio concepiti per l’apprendimento cooperativo, per lo studio individuale o di piccoli gruppi. Un tentativo che esprime il desiderio e la volontà di rompere le rigidità italiane che tengono strette in una unica morsa la struttura edilizia e l’organizzazione dello studio.
Scrive così Kaisa Nuikkinen, capo degli architetti del Dipartimento dell’Istruzione della città di Helsinki: «gli obiettivi architettonici di una scuola sono molto simili ai suoi obiettivi generali» e «l’architettura scolastica è guidata dal core curriculum nazionale e da specifiche esigenze pedagogiche […] l’apprendimento è inseparabile dall’ambiente fisico in cui ha luogo e l’architettura è parte integrante della progettazione funzionale dell’ambiente scolastico».

La mancanza di modelli educativi a cui ispirarsi
È interessante la parte del libro in cui l’autore/docente descrive il primo impatto con i suoi futuri colleghi della scuola di Trevenza, che pone da subito a confronto con i bidelli (oggi meglio conosciuti come personale Ata): «Mi sarei aspettato una diversità sociale tra di essi invece, allo sguardo, anche attento, non si riusciva a distinguere più gli uni dagli altri: stesso abbigliamento, identico modo d’atteggiarsi, medesimo disordine, tendenza a parlare ad alta voce e a gesticolare. Il fatto che i bidelli somigliassero in tutto e per tutto agli insegnanti potrebbe far desumere che ci sia stata una positiva abolizione delle classi sociali».
In un primo momento l’autore si compiace di questo; tuttavia, ben presto, si rende conto che «L’avvicinamento tra le due componenti […] è dovuto solo in parte all’acquisizione di dignità sociale dei bidelli. Piuttosto è dovuto al decadimento dello status sociale degli insegnanti, alla perdita della coscienza del loro ruolo educativo», circostanza che a suo dire è da attribuire solo in parte alla riduzione del reddito, ormai quasi del tutto equiparato a quello dei bidelli. Sebbene verrebbe da considerare che, almeno nel sistema fordista degli anni Trenta, era prevista la concessione agli operai di retribuzioni più elevate di quelle mediamente riconosciute, e ciò come incentivo e come riparazione al regime alienante tipico della catena di montaggio; mentre del sistema fordista di allora alla scuola di oggi è stato applicato solo il peggio.
Il fatto è che gli insegnanti non “sentono” più l’importanza e la responsabilità del proprio ruolo sociale ma si “accontentano” di un lavoro che garantisca loro un reddito di sussistenza, e poco importa se a loro sono affidate masse di giovani in piena età di sviluppo, bisognose di modelli educativi cui ispirarsi e che comunichino loro l’entusiasmo e non semplicemente un’arida serie di nozioni e di regole da rispettare.
Molto probabilmente, questa perdita di status è dovuta anche allo svilimento della figura del docente, che oggi è meno tutelato, remunerato e, in quanto precario, meno portato a svolgere la sua professione con decoro e passione, considerandola alla stregua di un lavoro manuale.
L’autore è molto critico al riguardo: «Come si possono stimare educatori che si presentano insicuri di poter sbarcare il lunario se non si trova loro un “posto”, o si mettono in mutande per sottolineare la propria povertà materiale, senza comprendere che in questo modo esprimono soprattutto la loro povertà morale? […] Se fossero davvero interessati alla professione, potrebbero protestare in modi adeguati […] Potrebbero proporre e attuare liberamente, in nome dell’autonomia d’insegnamento, cambiamenti comportamentali radicali […] rifiutarsi d’entrare nelle classi se non ci sono le condizioni igieniche, ambientali e di sicurezza stabilite dalla legge [...] Soprattutto, potrebbero coinvolgere in queste proteste gli allievi e le famiglie [...] Ma per fare tutto questo sono necessari una cultura, uno spirito di sacrificio e una militanza politica che gran parte degli insegnanti precari non ha e preferisce dedicarsi alla questua».
Che la scuola abbia perso parte del suo prestigio anche agli occhi della società è un dato di fatto.
I docenti, nell’immaginario collettivo, sono spesso guardati con malcelato disprezzo, come parassiti incompetenti e privilegiati rispetto ad altre categorie.
Corrado Poli critica quasi tutto della scuola: l’architettura, il modo di concepire l’insegnamento da parte dei docenti, nonché le modalità di assegnazione dei posti, descrivendo quello da lui vissuto come un luogo indegno e di degrado.
«L’assegnazione del posto e la firma del contratto sarebbero dovute diventare dei momenti cui attribuire un minimo di solennità e di forma».
Ancora, si sottolinea l’inutilità del collegio dei docenti e l’eccessiva importanza riservata al suo interno alla trattazione di tematiche del tutto marginali alla vita scolastica.
Dalle critiche non è esente neppure la figura del preside dell’istituto di città cui Poli viene inizialmente assegnato, e che lo stesso giudica assolutamente impreparato a rivestire il suo incarico, in quanto privo di quella capacità manageriale e di quella praticità che solo chi ha fatto politica o maturato altre significative esperienze di vita oltre la scuola può avere acquisito.
Tale capacità sembra, invece, possederla il dirigente del secondo istituto di un piccolo centro urbano, dove Poli insegna successivamente: «sebbene non fosse quella piccola scuola che stavo costruendo nelle mie immaginazioni, si rivelò la migliore possibile nelle attuali condizioni legislative e della mentalità più diffusa».
L’autore, dunque, pur restando critico, sembra distinguere tra scuole di città e scuole di provincia, privilegiando il metodo didattico delle seconde, probabilmente perché più calate nel contesto sociale nel quale operano, e tra le poche cose che salva della scuola italiana fa rientrare l’istituto del sostegno, in quanto non rivolto alla massa ma all’allievo nella sua individualità, privilegiando una didattica personalizzata e che tiene conto delle esigenze del singolo studente.
Riassumendo, l’idea che si vuole trasmettere è che per essere buoni insegnanti e bravi dirigenti occorra non “relegare” la propria vita alla scuola, ma aprirsi anche ad altre esperienze, che siano politiche, sociali, lavorative o professionali poco importa; fondamentale è essere poliedrici, aperti e soprattutto preparati, ma con una preparazione che si acquisisce non sui libri, bensì nella vita, operando a contatto con persone e realtà diverse. Solo in questo modo è davvero possibile avere qualcosa da trasmettere a dei ragazzi ancora privi dei necessari strumenti per affrontare la vita e, pertanto, desiderosi di apprendere quanto più possibile da chi ha il compito di formarli. Diversamente, sarà solo un tramandare aride regole di comportamento e nozioni prese dai libri.

La scuola ideale: utopia o possibile realtà?
Sebbene l’autore inizialmente sostenga di non avere scritto un libro per proporre un nuovo modello di scuola, tuttavia egli ha ben chiaro come dovrebbe essere la sua scuola ideale: piccola e facilmente raggiungibile a piedi, perfettamente inserita nel contesto urbano e gestita a livello locale, possibilmente comunale; sicuramente bella da un punto di vista architettonico, ma anche creativa, ecologica e rispettosa della salute di chi la “vive”; una scuola all’interno della quale poter scegliere, con un discreto margine di libertà, i propri compagni di studio, i docenti e le materie da studiare, e in cui sia data anche agli insegnanti la libertà di scegliere “cosa” e “come” insegnare, tenendo conto delle loro inclinazioni e dando la possibilità agli stessi di variare compiti e attività, consentendo loro di avvicendarsi.
Gli spazi all’interno della scuola dovrebbero essere ridefiniti e concepiti prendendo in considerazione le esigenze di allievi e professori, così come andrebbe rivisto il tempo da destinare all’insegnamento, che non sarebbe solo frontale – se non in minima parte – ma anche di gruppo, prevedendo, altresì, ulteriori attività di ricerca nelle biblioteche e su Internet e spazi ricreativi per tutti, nonché attività da svolgere in orari extrascolastici, in cui fare rientrare la pratica dello sport e di altre discipline.
In questo nuovo tipo di scuola (in verità, l’autore non ha in mente un solo modello, ma diversi), non è più il docente a cercare l’allievo e a controllarlo costantemente, ma è l’allievo che cerca il docente secondo le proprie necessità, avendo per il resto potere di autoregolamentazione.
Naturalmente, l’autore è consapevole dell’impossibilità di cambiare radicalmente la scuola; quindi, propone di introdurre i cambiamenti gradualmente o tutt’al più di creare scuole sperimentali da affiancare inizialmente a quelle tradizionali e in cui poter attuare nuovi modelli didattici.
Solo percorrendo questa strada sarà possibile avere “insegnanti felici e motivati”.
Come già si è avuto modo di rilevare, la scuola ideale immaginata da Corrado Poli ricalca molto quella delle più evolute città europee e non solo. Il fatto che in Italia si stia iniziando da poco a sperimentare nuovi modelli di insegnamento va senz’altro visto come un fatto positivo, sebbene il percorso da seguire affinché si vedano i frutti di un cambiamento sia ancora lungo e impervio. È condivisibile l’opinione dell’autore quando afferma che per giungere a un vero cambiamento è importante che l’intera collettività sia consapevole della necessità di modificare lo stato attuale delle cose e che la scuola rispecchi in piccolo quella che è la società. È, quindi, prioritario cambiare il sistema scolastico attuale per costruire una società migliore, più elevata culturalmente ma anche moralmente, perché il decadimento della scuola rispecchia quello dei tempi moderni.
Questo libro offre interessanti spunti di riflessione ed è adatto ad un pubblico vasto, se non altro perché tutti – o quasi – per un periodo della nostra vita siamo stati allievi e possiamo identificarci, se non proprio in tutto almeno in parte, in quel sistema così ben descritto dall’autore. Leggere questo saggio è un’occasione per riflettere sulla responsabilità e il dovere che tutti noi, in qualità di allievi, genitori, dirigenti scolastici, architetti e membri della società abbiamo nel costruire o, quantomeno, provare a costruire un mondo migliore.

Emanuela Rizzuto

(direfarescrivere, anno X, n. 101, maggio 2014)
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