Parlare di Adriana Zarri non è cosa facile. O, meglio, parlare dei suoi scritti, leggerli, comprenderli e da lì partire per una riflessione sul nostro tempo è, in realtà, cosa semplicissima, tant’era la chiarezza espositiva e la profondità del suo pensiero. Parlare della sua figura, invece, circoscriverla e incasellarla in una qualche limitata definizione, è assolutamente impossibile.
Adriana Zarri, scomparsa nel 2010 all’età di 91 anni, è stata anzitutto una scrittrice, saggista e giornalista. Collaborò con diverse importanti testate, come Adista, Avvenimenti (con la rubrica Diario inutile), Concilium, Il Manifesto (con la rubrica domenicale Parabole), Il Regno, L’Osservatore Romano, MicroMega, Politica oggi, Rocca, Servitium, Sette giorni, Studium. Molti, poi, la ricorderanno ospite fissa per quattro anni a Samarcanda, il talk show condotto da Michele Santoro in onda su Raitre a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. E anche per questo, ancora oggi, qualcuno la definisce con quel termine dai contorni vaghi e imprecisi che è “pensatrice”, come se il pensiero, tra l’altro, fosse un dono celeste che solo pochi esseri umani possiedono.
Adriana Zarri, però, fu soprattutto una donna libera: eremita e teologa, sì, ma anche, al contrario, una persona “comunicante” e soprattutto “controcorrente” (così come il titolo della rubrica da lei curata nella rivista Rocca).
La religione
Adriana Zarri si distingueva per «la fermezza e, insieme, la gentilezza della sua voce e della sua indole. Due costanti della sua vita e delle sue battaglie. Battaglie religiose, ma anticipatrici di temi attualissimi come l’ecologia, la caccia, il vegetarianesimo». Così la ricorda Giuseppe Moscati, dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane e collaboratore del Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università degli Studi di Perugia, nonché redattore del quindicinale Rocca, durante la presentazione del libro La gatta Arcibalda e altre storie. Riflessioni sugli animali e sulla natura (Graphe.it, pp. 104, € 8,00), avvenuta il 14 aprile presso la libreria “Musica & libri” di Bastia Umbra (Pg) e in cui è intervenuto anche Natale Fioretto, docente all’Università per stranieri di Perugia e autore della postilla al testo.
Le battaglie di Adriana Zarri, dunque, riguardavano anzitutto – ma non solo – la religione cattolica: convinta credente, ma critica dei dogmi, oltre che sostenitrice della laicità degli stati, visse alla costante ricerca di Dio. Un’indagine, questa, che partiva necessariamente dalla realtà, dal “sentire le cose” per arrivare a una comunione con gli altri prima ancora che a una comunione con Dio. La fede per lei non era tanto credere nei cosiddetti “contenuti di fede”, ossia nell’esistenza di Dio, nella divinità di Cristo, nella resurrezione, ecc., ma era soprattutto un «atteggiamento di ascolto e disponibilità», che comportava quindi inevitabilmente un rapporto con gli altri, intesi come tutto ciò che è terrestre e che è “altro” da ciascuno di noi. Per sua stessa ammissione, la sua era «una teologia trinitaria. La Trinità presuppone un certo concetto di Dio che ha una ricaduta sulla vita terrestre. L’unità non si contraddice con la pluralità, nell’essere c’è il divenire di Dio».
Il suo atteggiamento, sempre critico e mai passivo nella concezione del Cattolicesimo, la portava anche a dichiarazioni di estrema razionalità come, per esempio, quelle che riguardavano il suo punto di vista sull’esistenza dell’inferno: «Non credo nell’inferno, perché mi sembra un insulto alla bontà di Dio. Tra l’altro, anche la nostra cultura laica […] non ammette più la giustizia puramente punitiva. E la concepisce solo come capacità di riscatto, di reinserimento. In una pena che dura sempre come l’inferno questo riscatto non c’è. Quindi penso sia difficile ritenere che gli uomini siano più buoni di Dio. Quindi all’inferno non credo».
Adriana Zarri andava controcorrente anche quando, parlando della figura di Gesù, ne sottolineava il carattere ribelle e trasgressivo, poi addomesticato per convenienza dal Cristianesimo, o quando accostava l’immagine della Madonna (e quindi della donna) all’eros, all’amore latamente diffuso, ridonandole così dignità. Il suo pensiero aspirava, dunque, alla ricostruzione della Chiesa passando prima dalla sua decostruzione.
Gli animali
Il discorso sugli animali è similmente “alternativo” rispetto alla tradizionale visione religiosa. Chi sono questi esseri che ci accompagnano nella nostra vita?, sembra chiedersi Adriana Zarri nei numerosi articoli dedicati alle «bestie», come preferiva chiamarle lei. Contrariamente a quanto di solito si crede, ripensando al libro della Genesi in cui il Signore creò l’uomo e gli disse di dominare su ogni altro essere vivente della Terra (un dominio male interpretato e che vorrebbe semplicemente essere sinonimo di cura e attenzione), la scrittrice sosteneva che gli animali sono in realtà i nostri fratelli nella fede, e non solo in virtù della creazione, ma anche perché «la prima volta che si parla dell’Alleanza nella Bibbia, dopo il Diluvio, si dice che l’Alleanza è stata stipulata anche con gli animali. E quindi se gli animali fanno parte dell’Alleanza, fanno parte della storia della salvezza». E soffriva, probabilmente, nel pensare che, invece, teologia e morale si occupavano soltanto dell’uomo, dimenticando e spesso persino perseguitando, come accadeva nel Medioevo, questi fratelli di fede.
La gatta Arcibalda e altre storie, che vanta, tra l’altro, la Prefazione di mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, è una raccolta di articoli sugli animali, che la Zarri scrisse dal 1984 al 2010 e che furono pubblicati in origine su Rocca, la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi sopra citata. In ogni brano emerge tutto l’amore dell’autrice per questi nostri compagni di vita. Un amore che è fatto anzitutto di rispetto e di cura, e non cade mai nell’errore della loro antropomorfizzazione, come invece succede a molti di noi quando interpretiamo i loro gesti e i loro versi in senso umano e magari parliamo loro come se fossero in grado di comprendere le nostre parole, togliendo in questo modo dignità non solo agli animali ma anche a noi stessi. Ecco perché Adriana Zarri – lungi dal conferire al termine un giudizio di valore – preferiva chiamarli «bestie» e non animali “d’affezione” o “domestici”: perché sono creature diverse da noi, con tutto il loro carico di “brutalità” che l’essere umano invece in sé ha addomesticato per giungere a un comportamento civile. Esemplare è in questo senso Lettera aperta a un leone, in cui al sentimento d’affetto che la spinge ad accarezzare il «re degli animali» fa da contrappunto la consapevolezza della sua pericolosità ferina: «lascia che allunghi una mano (non azzannarmi, veh!) ad arruffare amichevolmente la tua umiliata criniera».
L’eremita
Adriana Zarri, dunque, amava profondamente «nostra sorella bestia», si definiva spesso “gattologa” e possedeva molti gatti (tra cui la sua Arcibalda, nera ma con «la macchia della Madonna») e altri animali da cortile nel suo eremo a Crotte di Strambino (To), dove, pur prendendo le parti del “movimento animalista”, non disdegnava talvolta, per esigenze puramente gastronomiche, di tirare il collo a qualche gallina. Momenti dolorosi, per lei, in cui – scriveva – «mi consumo regolarmente nella mia crisetta di coscienza che non ho ancora del tutto risolta, ma solamente tamponata proprio guardando a te e ai tuoi simili che tutti uccidete per mangiare; il che mi induce a credere che ciò faccia parte dell’equilibrio del mondo».
Il suo vivere da eremita non fu dettato da motivi di misantropia né fu una clausura di tipo monastico, ma semplicemente una volontà di solitudine, «perché nella solitudine si ha il momento privilegiato dell’incontro». Un ritiro spirituale, dunque, ma sempre “comunicante”, in costante contatto con il resto del mondo, sui cui fatti era aggiornata e ai cui dibattiti partecipava con i suoi numerosi scritti e interventi attraverso molteplici mezzi di comunicazione. Un romitaggio a contatto con gli animali e la natura tutta, con l’intero creato che è pluralità e unità insieme. Una scelta di vita che Adriana Zarri avrebbe voluto mantenere anche dopo il trapasso, come scrisse nel proprio epitaffio: «Vestitemi / a fiori gialli e rossi / e con ali di uccelli. […] Lasciate solo la terra / che scriva, a primavera, / un’epigrafe d’erba». E c’è chi dice che, poco prima di chiudere il suo feretro, la gatta Arcibalda le salì in grembo e la salutò con un’ultima “umana” carezza, per poi scomparire per diversi mesi.
Graziana Pecora
(direfarescrivere, anno VIII, n. 78, giugno 2012)
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