Anno XXI, n. 230
aprile 2025
 
La cultura, probabilmente
Il caso “kafkiano” di Giacomo Mancini,
inquisito per mafia per nove lunghi anni
e poi scagionato per mancanza di prove
Francesco Kostner ricostruisce il noto processo indiziario
attraverso la testimonianza di Enzo Paolini. Da Rubbettino
di Guglielmo Colombero
«Giacomo Mancini muore a 86 anni nel 2002. Gli ultimi e intensissimi nove anni della sua vita li aveva passati sotto la mannaia giudiziaria, bersagliato dalle accuse più infamanti che si possano rivolgere a un politico. Che tutto della sua vita era stato monnezza e crimine. Una tragedia italiana. E comunque leggetelo questo libro che avete in mano. In nome della verità». Così Giampiero Mughini, nella Prefazione al volume, individua il nocciolo della questione affrontata in Agguato a Giacomo Mancini. Storia di un processo per ’ndrangheta senza prove (Rubbettino, pp. 336, € 14,00), scritto dal giornalista Francesco Kostner (curatore della pagina Arte, Cultura e Spettacolo sulla Gazzetta del Sud) sulla base della testimonianza dell’avvocato Enzo Paolini, che formava il collegio difensivo di Mancini assieme al compianto Tommaso Sorrentino e a Marcello Gallo. Una corposa e dettagliata ricostruzione di un processo che, dopo il caso Tortora, destò altrettanto scalpore. Kostner ripercorre la vicenda attraverso un fitto dialogo con Paolini, delineando una concatenazione serrata degli eventi in puro stile cronachistico. Antefatti, presupposti, cause ed effetti: ogni tessera del mosaico risulta incastonata al posto giusto e, attraverso i ricordi del testimone, il quadro che emerge diviene progressivamente più nitido. Afferma infatti Paolini: «L’avvocato, forse, non ha il diritto di scrutare il mondo che lo circonda, oltre i codici e le pandette? Non deve rendersi conto e riflettere, oltre il valore dei riferimenti ideali, etici e professionali, ai quali s’ispira, di ciò che fa, vede, tocca con mano?».

Atto primo: un impianto accusatorio dalle molte sfaccettature
Due pentiti della ’ndrangheta, Filippo Barreca (nome in codice: “Alfa”) e Giacomo Lauro (“Beta”), rivelano ai magistrati di Reggio Calabria che Giacomo Mancini è implicato nel voto di scambio e anche in una vicenda di millantato credito (in pratica, per ottenere voti, avrebbe promesso al boss Natale Iamonte di adoperarsi per “aggiustare” certi processi che lo riguardavano). Nell’ottobre 1993, Mancini si candida per le elezioni amministrative a Cosenza, a capo delle liste civiche “Cosenza Domani” e “Lista per Cosenza”, sfidando sia il candidato della coalizione fra Pds, Rifondazione comunista e Verdi, Giuseppe Mazzotta, che quello del quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pli, Piero Carbone. E diventa sindaco, al secondo turno, ottenendo quasi sei voti su dieci. A Mancini non manca certo il fiuto politico, che gli consente di vedere oltre: «sentì il vento di destra che stava per soffiare nel nostro paese e non si fece trovare impreparato di fronte al nuovo scenario. Il suo, al contrario di quanto si pensava nei giorni precedenti al voto, fu un autentico capolavoro tattico e strategico. Alla fine fu Mancini a diventare il riferimento degli scontenti, e non il rappresentante della destra». Una volta insediato a Palazzo dei Bruzi, Mancini «ereditò una macchina amministrativa affannosamente e stancamente collocata sui binari morti. La scrutò da un capo all’altro, ne studiò i difetti, ma anche le potenzialità, che erano affatto limitate, e la preparò ad affrontare nuove e decisive sfide». Cosa decide di fare? Impone un nuovo Piano regolatore, intransigente sulle regole; riapre il teatro “Rendano”; inizia l’opera di recupero del centro storico e trasferisce altrove il mercato di via Rivocati al fine di risanare uno dei quartieri più suggestivi della città. Insomma, di calli illustri il nuovo sindaco di Cosenza ne pesta parecchi. Infatti, la sconfitta del figlio Pietro alle elezioni per la Camera dei deputati nel 1994 suona quasi come una rappresaglia. In estate, la magistratura reggina chiede il rinvio a giudizio di Mancini con l’accusa di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso: «Il senatore Salvatore Frasca, per esempio, che era stato componente della Commissione antimafia e protagonista di coraggiose battaglie sui problemi della criminalità e della giustizia, dentro e fuori il parlamento, bollò come assurde e inaccettabili le accuse contro Mancini e le determinazioni cui erano giunti i Pm di Reggio Calabria».

Atto secondo: nei meandri di un procedimento labirintico
«La consapevolezza che, dietro alla richiesta di rinvio a giudizio, avesse preso corpo una lettura delle vicende politiche calabresi e nazionali pericolosamente incline a intravedere responsabilità, connivenze, rapporti, interessi, conferme di comportamenti censurabili, sol che fosse intervenuto un semplice accenno, benché impreciso e generico, da parte dei collaboratori di giustizia. Magari riferito a qualche decennio prima e a situazioni che, con tutta la buona volontà e gli sforzi necessari, era difficile riportare al contesto odierno senza correre il rischio di sbagliare. L’inconsistenza delle accuse, nella maggior parte dei casi, era totale. Le prove, praticamente, inesistenti. Ciò nonostante, l’impressione era che una parola dei pentiti, anche se pronunciata in maniera confusa bastasse per mettere in moto un meccanismo senza ritorno». E ancora scrive Paolini: «In gioco, a Palmi, e durante tutte le fasi che portarono a quel processo, non c’era un’esigenza di Giustizia, ma una precisa volontà “politica” e giudiziaria: condannare un uomo simbolo di una fase storica che, in quel momento, era posta al centro della crisi strutturale, sistemica, che investiva il Paese». Il pm Boemi «impostò il suo ragionamento per spiegare alla Corte che la novità forse più importante, in questo processo di modificazione della sua identità, era costituito dal fatto che la ’ndrangheta, nel corso del tempo, fosse riuscita a valersi del lavoro prezioso, e quindi del sostegno camuffato, impercettibile, indecifrabile, ma determinante, di fiancheggiatori esterni, che avevano fatto la sua fortuna». Dal canto suo, il pm Verzera sosteneva che «tutto l’impegno sempre riconosciuto a Mancini nella lotta alla ’ndrangheta, nella sostanza non ci sarebbe mai stato. Su questo punto, cioè, sarebbe stata creata una sorta di “aurea” celebrativa, che non avrebbe mai corrisposto a una effettiva lotta a questo cancro della società». In contrasto con queste tesi, l’avvocato Tommaso Sorrentino evoca la vicenda di Salvo Lima, che «fu ucciso perché non offriva più le garanzie di cui la mafia aveva bisogno come in passato. Era stato eliminato per quella che la mafia riteneva “una semplice elementare ragione”, funzionale non solo a “punire” un traditore, ma anche a tutelare l’organizzazione criminale da ogni rischio. Nel caso di Mancini, se fossero state vere le accuse che gli erano state rivolte, se non era più grave poco ci mancava». E riguardo al discusso fenomeno del pentitismo, Paolini rammenta «l’incredulità che mi procurava il filosofeggiare cinico e sfrontato dei pentiti, libero da ogni vincolo, posto a base di un’azione giudiziaria che puntava a umiliare prima, e a condannare dopo l’imputato. Non solo secondo quando prevedeva il codice penale, ma davanti alla storia».

Epilogo: colpevole, innocente. I due lati opposti dello specchio
Secondo gli autori, dunque, partendo dall’innegabile presupposto che «un ambiente arretrato sul piano sociale e culturale costituisca, come Mancini ebbe a dire anche in quella circostanza, e, in ogni altra occasione di confronto sulla ’ndrangheta, un incubatore naturale all’interno del quale tendenze, propensioni, identità possono incanalarsi in direzioni precise. Quasi obbligate», è forte l’impressione che l’intero impianto accusatorio «riflettesse, o risultasse fortemente condizionata, da una visione del mondo nella quale i magistrati erano chiamati a svolgere una sorta di missione salvifica, di purificazione della società, che le impurità e le incrostazioni create dalla politica avevano reso invivibile». Toccante, sempre a questo proposito, la testimonianza processuale di una figura carismatica come quella di Giorgio Ruffolo: egli affermò di considerare «tutta l’azione culturale, politica, civile dell’onorevole Giacomo Mancini esattamente sul versante opposto» rispetto alla mafia. E soggiunse che l’ipotetica connivenza di Mancini con la mafia poteva essere paragonata a quella di «Pietro Nenni con l’opera di Mussolini». La sentenza, pronunciata dal tribunale di Palmi il 25 marzo 1996, fu di condanna a tre anni e mezzo di reclusione: le regioni del Sud, commentò Giacomo Mancini, «non possono essere criminalizzate e consegnate alla furia di inquisitori allevati nella cultura della repressione e di una emergenza giudiziaria finalizzata ad obiettivi che poco hanno a che fare con la giustizia». E aggiunge in un’altra occasione: «la repressione contro la mafia diventa in Calabria particolarmente dura e aspra quando gli effetti del fenomeno si fanno sentire con particolare efferatezza fuori dalla regione. La febbre repressiva è più bassa se la mafia opera in Calabria soltanto». Sul periodico Chiarezza, Luigi Gullo, uno dei maggiori intellettuali calabresi di quegli anni, affermò che «è un sintomo sicuro del brutto tempo che viviamo creare, dal legislatore e poi affermare in Tribunale, una tipologia di illecito politico sostenuta da circostanze e particolari facilmente addomesticabili e manovrabili da inquieti accusatori e da testimoni dal passato e dal presente oscuro». Ricandidatosi sindaco nel 1997 per l’Ulivo, Mancini vinse nuovamente, con il 58% dei voti, staccando di quasi 30 punti il candidato del Polo delle libertà Giuseppe Carratelli: rieletto a furor di popolo, dunque. Purtroppo, la malattia destinata a sconfiggerlo iniziò a manifestarsi pochi mesi dopo: trascorsero altri due anni prima della sentenza di assoluzione in appello da parte del Tribunale di Catanzaro, il 19 novembre 1999. Ecco le conclusioni del gip Vincenzo Calderazzo a supporto della tesi innocentista: «Nel caso in esame, non emerge che i presunti contributi di Mancini Giacomo, occasionali e non istituzionalizzati, furono richiesti dalle consorterie mafiose e, comunque, che furono richiesti per colmare “vuoti” profondi della “struttura” o per superare “patologie” gravi di questo o di quel sodalizio. Vi è che, quelli ipotizzati dal Pm, sono interventi che evidenziano più intenti utilitaristici dell’imputato a fini elettorali che interessi dell’associazione che trascendono la “normalità” della sua vita associativa. Conclusivamente, gli enunciati accusatori del Pm, relativamente alle condotte di concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, si rivelano generici e indefiniti e, comunque, penalmente irrilevanti». Concludiamo con una citazione tratta dalla Postfazione al libro dell’avvocato Franco Sammarco: «Il dissidio Giustizia-Politica, se si preferisce, Politica-Giustizia, è l’esito della incapacità di entrambe di essere ciò che dovrebbero».

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno VIII, n. 77, maggio 2012)
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