Anno XXI, n. 229
marzo 2025
 
La cultura, probabilmente
Trame eversive nell’Italia di inizio ’900.
Il connubio tra anarchici e borbonici
per rovesciare il dominio dei Savoia
L’analisi della missiva in cui Errico Malatesta espose
il proprio progetto insurrezionale. Da Universitas studiorum
di Giuseppe Licandro
Il 6 maggio 1898 a Milano scoppiò una rivolta popolare contro l’aumento del prezzo del pane che si protrasse per quattro giorni, durante i quali le truppe guidate dal generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla provocando – secondo i dati ufficiali – ottantotto morti.
Il re d’Italia, Umberto I, premiò Bava Beccaris con l’attribuzione della Croce di grand’ufficiale dell’Ordine militare di Savoia e lo nominò senatore.
Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci – rientrato in Italia da Paterson (Usa), dove era emigrato alcuni anni prima – volle vendicare i morti di Milano e uccise a colpi di pistola il sovrano sabaudo mentre si trovava in visita a Monza.
Bresci, arrestato dai Carabinieri e processato per regicidio, non fu condannato a morte, bensì all’ergastolo perché nel 1889 il Codice Zanardelli aveva abolito la pena capitale per i reati non sottoposti alla giustizia militare.
Il 22 maggio 1901 il corpo senza vita dell’anarchico fu rinvenuto nella sua cella del carcere di Santo Stefano a Ventotene, impiccato a un’inferriata con un asciugamano: la versione ufficiale, fornita dalla direzione del penitenziario, avvalorò la tesi del suicidio, ma altre fonti sostennero che Bresci era stato massacrato dalle guardie carcerarie, che poi avevano inscenato un finto suicidio.

La lettera di Malatesta
La storiografia ha in genere considerato l’attentato di Monza come il gesto isolato di un esaltato che volle vendicare i morti di Milano, ma di tale avviso non sono gli studiosi Salvatore Mazzariello ed Enrico Tuccinardi, i quali hanno recentemente dato alle stampe il saggio Architettura di una chimera. Rivoluzione e complotti in una lettera dell’anarchico Malatesta reinterpretata alla luce di inediti documenti d’archivio (Universitas studiorum, pp. 184, € 16,00).
Gli autori, all’inizio del volume, presentano una lettera inviata il 18 maggio 1901 – quattro giorni prima della morte di Bresci – dall’anarchico Errico Malatesta, in esilio a Londra, a un destinatario anonimo di Parigi. La missiva, però, fu intercettata da alcuni agenti segreti che la consegnarono al governo italiano.
Nella lettera, Malatesta rivelò l’esistenza di un progetto insurrezionale antisabaudo («se avremo potuto prepararci prima, sarà il momento buono per noi») e parlò anche degli aiuti finanziari che gli anarchici avevano ricevuto da una misteriosa «Signora». Questo personaggio è stato identificato dagli storici in Maria Sofia di Baviera, l’ex sovrana del Regno delle Due Sicilie. Costretta all’esilio insieme al marito Francesco II nel 1860, Maria Sofia visse per lungo tempo a Parigi, tramando contro i Savoia per restaurare i Borbone sul trono di Napoli.
Il destinatario della lettera fu quasi certamente il pittore parigino Felice Vezzani, mentre il latore della missiva fu Luciano Campagnoli, un anarchico residente in Brasile che si trovava in quel periodo a Londra, ospite del fratello Arturo.

Le spie giolittiane a Parigi
Il 29 luglio 1900 sul trono italiano salì Vittorio Emanuele III, il quale, l’anno seguente, nominò capo del governo il liberale progressista Giuseppe Zanardelli, che a sua volta conferì a Giovanni Giolitti la guida del Ministero degli Interni.
Il nuovo ministro trattò con tolleranza il movimento operaio, puntando sulla prevenzione anziché sulla mera repressione della sua ala estrema, rappresentata dagli anarchici. In tal senso egli mise in piedi un’efficiente struttura di intelligence, diretta da Francesco Leonardi, che sguinzagliò in giro per il mondo i propri agenti segreti alla ricerca dei sovversivi più pericolosi, in particolare nella cerchia di Malatesta.
La rete spionistica più efficace fu quella di Parigi, diretta da Giuseppe Tornielli, ambasciatore italiano in Francia dal 1895 al 1908. Essa poteva contare sull’apporto di un cospicuo gruppo di confidenti: i giornalisti Ennio Belelli e Dario Rossi, lo scultore Francesco Giambaldi, lo studente universitario Enrico Insabato e un anonimo informatore francese «che Tornielli, nelle relazioni inviate al Ministero dell’Interno, chiamava la “solita fonte”».
A fornire notizie utili sulle trame sovversive fu soprattutto Giambaldi, un artista dal carattere irrequieto che, fingendosi simpatizzante della causa anarchica, «riuscì agevolmente a legare con uomini come Vezzani […] e Malatesta».
Leonardi, dunque, seppe tessere intorno ai libertari parigini una complicata ragnatela, «tale da rendere estremamente difficile […] la preparazione e la messa in atto di un qualsiasi progetto eversivo all’insaputa del Ministero».
Insabato carpì la fiducia di Vezzani, riuscendo a leggerne la corrispondenza: ai primi di luglio del 1901, entrato in possesso della lettera inviatagli da Malatesta, la fece pervenire al questore di Bologna, Vincenzo Neri. Quest’ultimo mandò a Roma il vicequestore Riccardo Sechi, che fece vedere la missiva al capo dell’intelligence, lasciandogliene in custodia una copia autenticata.
Leonardi inviò prontamente una lettera raccomandata all’ambasciatore Tornielli, avvisandolo che Malatesta e gli anarchici parigini, in combutta con Maria Sofia, avevano progettato «un rivolgimento in Italia preparando le masse dei lavoratori alla rivoluzione e servendosi all’uopo dei mezzi forniti dalla anzidetta Signora».
Il 12 luglio due copie fotostatiche della lettera di Malatesta furono spedite al Ministero degli Interni, pervenendo così all’attenzione di Giolitti.

Un anarchico italo-cubano
Mazzariello e Tuccinardi dedicano un ampio capitolo del libro a Oreste Ferrara, un giovane anarchico napoletano – menzionato da Malatesta nella lettera del 1901 – che partecipò alle lotte per l’indipendenza di Cuba dalla Spagna.
Ferrara, assunta la nazionalità cubana, trovò lavoro come dipendente del governo militare insediatosi a L’Avana nel 1898, dopo l’occupazione dell’isola caraibica da parte dell’esercito statunitense.
L’esule ritornò in Europa nel 1900, in occasione dell’Esposizione universale che si tenne a Parigi, stabilendosi per qualche tempo nella capitale francese. Qui ebbe modo di frequentare i circoli anarchici e di partecipare a vari incontri con Maria Sofia.
Ferrara si dimostrò titubante rispetto alle offerte di aiuto che provenivano dai Borbone, temendo che la causa anarchica fosse strumentalizzata a fini reazionari; Malatesta, invece, era convinto che l’insurrezione socialista in Italia avrebbe tratto vantaggio dallo strano connubio creatosi tra legittimisti borbonici e rivoluzionari.
Nel settembre del 1900, l’anarchico italo-cubano – dopo un breve soggiorno in Campania – fece rientro a Cuba, dove sostenne le rivendicazioni salariali dei lavoratori di Sagua, pubblicando sul quotidiano La Perseverancia un duro attacco contro «l’odiosa occupazione nordamericana» che gli costò l’espulsione dall’isola.
Ritornato nuovamente in Europa, Ferrara si stabilì a Napoli, dove riuscì a laurearsi in Giurisprudenza: agli inizi di novembre del 1901 si recò forse a Londra, prendendo parte a «una sorta di riunione operativa di alto profilo nella quale confluirono tutti i protagonisti di questa vicenda». Alla fine dell’incontro, tuttavia, i cospiratori decisero di rinviare a data da destinarsi l’insurrezione in Italia, perché «non sussistevano ancora le condizioni essenziali per entrare in azione».
Ferrara rientrò in seguito a Cuba dove iniziò «una vita diversa, decisamente meno rivoluzionaria», schierandosi dalla parte del liberale Tomás Estrada Palma, che nel 1902 divenne presidente della Repubblica cubana.

Uno strano viaggio in Italia
Nella lettera di Malatesta si faceva riferimento anche a un imprecisato “affare sicuro” del quale si occupò Angelo Insogna, un giornalista napoletano entrato a far parte dell’entourage parigino di Maria Sofia nel 1893 e diventatone poi l’intendente.
Insogna abbinò ecletticamente il legittimismo borbonico alle idee rivoluzionarie, mantenendo buoni rapporti con Oddino Morgari e Dino Rondani, due deputati socialisti che «costituivano una sorta di ambigua e magmatica cerniera tra una parte del mondo anarchico e la politica istituzionale».
Nel febbraio 1901 il giornalista si trasferì in Italia, forse per mettere in atto un piano ordito da Malatesta in combutta con Maria Sofia. Giolitti scatenò un’intensa “caccia all’uomo” contro Insogna, che terminò il 15 marzo a Roma col suo arresto: dopo due giorni, però, egli fu rilasciato e ritornò in Francia.
Giolitti ritenne opportuno coinvolgere nell’opera di prevenzione anche le autorità francesi, che furono avvisate delle trame che si tessevano nella residenza di Maria Sofia a Neully. L’ambasciatore Tornielli prese così contatto con il presidente della Repubblica transalpina, Pierre Waldeck-Rousseau, avvertendolo dell’anomalo connubio tra anarchici, borbonici e socialisti: l’ex regina, quindi, fu formalmente redarguita dal governo austriaco e da quello francese, che la invitarono a porre fine alle sue macchinazioni antisabaude.
La rivoluzione in Italia, pertanto, non ebbe più luogo, anche se non si affievolì lo spirito combattivo di Malatesta, che fu tra i protagonisti dell’effimera e tumultuosa “Settimana rossa”, esplosa nell’Italia centrale nel giugno 1914.

Il progetto di evasione
In cosa consisteva il misterioso “affare sicuro” di cui si faceva cenno nella missiva di Malatesta? Perché Insogna venne in Italia?
Mazzariello e Tuccinardi sono convinti che «si stesse concretamente preparando un progetto di evasione di Gaetano Bresci», messo a punto a Neully da Charles Malato, un anarchico «specialista nell’organizzazione di fughe».
L’omicidio in carcere di Bresci, quindi, sarebbe stato predisposto da Giolitti per «risolvere il problema alla radice e ridurre a zero le probabilità che il piano eversivo potesse andare in porto». La morte dell’anarchico toscano, spiazzando Malatesta e i suoi seguaci, rese a quel punto impossibile «l’agognata rivoluzione».
Il primo a parlare pubblicamente del progetto di evasione di Bresci fu Benedetto Croce, nell’articolo Gli ultimi borbonici apparso su La Stampa il 3 giugno 1926: il filosofo abruzzese forse era stato informato di quanto accaduto proprio da Giolitti.
La tesi crociana – anche se fu ripresa da studiosi come Giovanni Artieri e Arrigo Petacco – non ricevette particolare credito in ambito storiografico: Mazzariello e Tuccinardi la ripropongono di nuovo nel loro libro, esibendo documenti inediti.

Le ipotesi sull’omicidio di Umberto I
L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’omicidio di Umberto I, prova a stabilire se l’assassino agì completamente da solo oppure se ebbe complici e mandanti.
I due autori – sulla falsariga delle ricerche storiche di Giampietro Berti e Roberto Gremmo – sono convinti che Bresci sarebbe stato supportato dal movimento anarchico individualista, il quale aveva proprio a Paterson la sua base operativa.
Malatesta sarebbe stato informato del progetto di regicidio e lo avrebbe approvato, nonostante le divergenze politiche esistenti tra lui e gli individualisti americani, «in quanto possibile causa scatenante di una finalità più ampia ovvero l’agognata esplosione di una rivolta di popolo».
I due studiosi, inoltre, sono persuasi che Maria Sofia avesse preso parte al complotto contro Umberto I, riferendo alcune annotazioni di Alessandro Guiccioli, prefetto di Torino, il quale nel 1901 riportò in un diario la seguente dichiarazione di Giolitti: «Il Governo ha le prove del modo come fu ordinato il complotto che portò al regicidio di Monza. La Regina Maria Sofia ne fu l’ispiratrice e la mandante e procurò i mezzi finanziari per attuarlo».
A conferma di questa tesi, Mazzariello e Tuccinardi riportano il carteggio del nobile borbonico Giovanni Maria d’Alessandro Duca di Pescolanciano e le rivelazioni fornite dall’abate Bruno Tedeschi, consigliere dell’ex regina delle Due Sicilie.
L’attentato a Umberto I, secondo gli autori, rappresentò «quel genere di atto in grado di congiungere due mondi distanti mille miglia, contatto effimero nelle cause ma crudelmente concreto nelle conseguenze».
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dunque, ci fu una “convergenza d’interessi” tra anarchici e borbonici, i quali, pur perseguendo obiettivi radicalmente differenti, tentarono di cavalcare il malcontento popolare diffusosi nell’Italia postunitaria e di sfruttare lo iato esistente tra la classe dirigente e i lavoratori, destinato solo in parte a colmarsi durante l’età giolittiana.

Giuseppe Licandro

(direfarescrivere, anno XI, n. 116, agosto 2015)
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